“La casa del mago” di Emanuele Trevi e il «vuoto esistente» delle possibilità nella relazione padre-figlio

by Antonella Soccio

A volte la vita dura più a lungo delle domande che le facciamo. L’ultima domanda, quella identica per tutti: è proprio vero che devo morire anche io?, non prevede nessuna risposta.

La memoria è una grande romanziera: dilata, corregge, omette senza scrupoli, pretende di usurpare un’affidabilità che non le appartiene- con tutta la buona fede di chi la interroga. Non bisogna però trascurare il senso di colpa che le persone veramente esistite ispirano a chi le trasforma in personaggi.

Da che mondo è mondo, poi, i luoghi sacri, intesi come porte o ponti tra il visibile e l’invisibile, sono governati da regole minuziose e proibizioni. Così accadeva nei tempi antichi, quando questi luoghi erano vulcani, meteoriti conficcati nel suolo, fonti, dirupi, radure, grotte ostruite da cascate»

Ogni momento è un equilibrio imprevedibile di forze contrarie, una configurazione unica del caso nella fuga di specchi della possibilità, un oracolo cinese.

È difficile inquadrare cosa sia il romanzo “La casa del mago” di Emanuele Trevi edito da Ponte alle Grazie e tra i sei libri finalisti della quinta edizione del Premio letterario nazionale I fiori blu.

Non è memoir, come potrebbe sembrare dalle strepitose e divertentissime prime 40 pagine, dove l’autore si concentra nei ricordi di infanzia e nel racconto di suo padre, il grande psicoterapeuta junghiano, che ha fatto la storia della psicoanalisi nella capitale, Mario Trevi.

Un essere impenetrabile, uno sciamano distratto, che va compreso secondo la sensibilità della madre dello scrittore, la quale ad ogni quesito, ad ogni dubbio, ad ogni dimenticanza, amava ripetere la giustificazione, “lo sai com’è fatto”.

Non è neppure un pezzo di autobiografia né un omaggio ad un padre favoloso, quando piuttosto un particolare trattato di psicomagia sul potere dei luoghi e degli oggetti, che più di noi sanno incarnare il nostro inconscio che incrocia l’inconscio collettivo.

I posti, come la casa paterna, che Trevi si trova quasi costretto ad acquisire invece di vendere, sono dei varchi, delle porte nella nostra coscienza. Delimitano ciò che siamo e le proiezioni che eternamente viviamo dei nostri cari, dei nostri antenati.

“Io non sono quello che credi”, dice al figlio adulto il mago, ribaltando per sempre la visione che il narratore credeva di avere del proprio genitore.

Questa storia imprendibile è fatta di maghi e fattucchiere, di presenze fantasmatiche, di fantasmi e di incontri letterari dell’Italia del dopoguerra, che si apriva alle grandi correnti di pensiero internazionali. Non solo Jung e la sua Miss Frank Miller per lo studio della schizofrenia, ma anche Ernst Bernhard, Natalia Ginzburg, Giorgio Manganelli, Beppe Fenoglio.

“La casa del mago” di Emanuele Trevi è un romanzo claustrofobico e insieme illuminato da presenze femminili episodiche, casuali. Tre donne: la Visitatrice, forse una antica paziente in cerca di scherzi e di segreti come lo era solo nelle sue fantasie Natalia Ginzburg che desiderava conoscere i dettagli della vita del suo analista; la Degenerata e Paradisa, la prostituta sudamericana, che diviene per lo scrittore una figura rassicurante e sofficemente carnale.

Il lettore troverà nel romanzo tanti spunti per scoprire o recuperare i trattati junghiani e immergersi nei capisaldi del pensiero che indaga Ego, Es e SuperEgo. Dalla la teoria dei tipi alla psicopatologia dak sogno all’attività simbolica.

Sono bellissime le pagine sul sogno dello scrittore, quando rincontra un padre molto diverso dall’immagine che ne ha sempre avuto, a dimostrazione del fatto che la relazione spesso è priva del due e si focalizza in una individuale unilateralità con una rigidità di adattamento.

La relazione è una porta nell’ignoto, nell’Altro. E il mago agli occhi di Trevi appare come una riproduzione del sessantunesimo esagramma del Libro dei mutamenti, l’I King, di cui lo psicanalista possedeva una copia «squinternata» che oggi fa parte del museo custodito dal figlio.

La bellezza di «Ciung Fu, La veracità intrinseca» consiste «in quel vuoto nel mezzo, o nel cuore, che però, delimitato sopra e sotto da linee continue, è un vuoto esistente, come lo zero dentro una cifra».

Ebbene è da quel vuoto esistente, successivo al lutto, che tutti partiamo dopo una perdita.

Emanuele Trevi ci regala una singolare lettera d’amore a suo padre in forma di romanzo.

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