Tralicci e autoritratti. I «cuori nella tormenta» di Limosani. E qualche spunto per una enciclopedia del foggianesimo. -1- La «ciucciagine granezzosa»

by Enrico Ciccarelli

In un precedente articolo ho espresso il mio apprezzamento per la grande installazione artistica proposta da Felice Limosani alla città di Foggia, esprimendo addirittura l’auspicio che possa diventare un simbolo identitario della città, con tutto quello di ambiguo e scivoloso che questa espressione comporta. Mi pare che con molto equilibrio l’Amministrazione Comunale voglia procedere in modo lineare, senza forzature in un senso o nell’altro.

È utile ricordare che la discussione che si è giustamente aperta nella città e sui social non ha un valore deliberante: abbiamo votato per degli amministratori proprio perché si assumano la responsabilità di scelte e decisioni. Non ci sarà quindi alcun «referendum sui tralicci», come non c’è stato per la Nuvola di Fuksas a Roma o la Chiesa di San Pio progettata da Renzo Piano a San Giovanni Rotondo, per citare due opere importanti e controverse degli ultimi decenni.

La discussione, però, è molto importante: sia perché rappresenta comunque un esercizio di partecipazione e di consapevolezza, sia perché, dal punto di vista della notazione socio-antropologica presenta un impressionante, volta a volta esilarante o terrificante, repertorio del Foggianesimo, cioè l’esposizione in purezza di quelle caratteristiche di lamentosità sterile, di vittimismo fottigno, di ottusa chiusura che rendono una città ostaggio dei suoi peggiori «animal spirits», fieramente ostinati a difesa del vessillo su cui c’è scritto «Il foggiano non fa, non sa fare, non vuol fare e non vuole far fare».

È opportuno premettere che resta al di fuori di questo perimetro tutto ciò che è espressione di puro gradimento o sgradimento estetico. Detto in altri termini, rispetto profondamente quanti –a differenza di me- pensano che l’installazione di Limosani sia «burtta», perché credo che «la bellezza sia nell’occhio di chi guarda», e se un genio iconoclasta come Andy Warhol poteva dire «La cosa più bella di Firenze è il McDonald’s» con ciò cestinando Uffizi, Giotto, Brunelleschi e quant’altri figuratevi se non si può dire che non ci piace Limosani! E tuttavia…

Tuttavia –e qui comincia il foggianesimo nella sua essenza- il più tranchant dei giudizi soggettivi non dovrebbe andare oltre il seminato. Per esempio, su un giornale della città ci viene reso noto in prima pagina che un ex-magistrato, che è anche un ex-assessore della Giunta Landella, sostiene che quella di Limosani sia una «strampaleria spacciata per arte». Ignoro sulla scorta di quali competenze questo signore si esprima con tanta baldanza, e per la verità sarei in seria difficoltà a chiarire cosa sia «oggettivamente» arte (spiriti magni e ingegni eccelsi ne discutono da secoli senza molto successo, mi pare).

Posso solo dire che è una fortuna che questo spacciatore si sia imbattuto soltanto ora in un critico di tale acume, perché nel frattempo ha rifilato strampalerie a vari sprovveduti in giro per il mondo, cogliendo ambiziose commesse da Adidas, a Calvin Klein, da Audi a Giorgio Armani (se volete vedere altre strampalerie, fate un salto sul sito www.felicelimosani.com). Ci devono piacere i tralicci? No. Ci deve stare simpatico Felice Limosani? E chi lo ha detto? Ma trattarlo alla stregua di un peracottaro o paragonare la sua opera a elementi di arredo urbano come i pennoni-lampioni-fasci di piazza Italia integra quella peculiare e deteriore qualità di molti foggiani di essere «ciucce e granezzuse», di sentirsi in diritto e talvolta in dovere di esprimere giudizi ex cathedra sulla scorta di titoli inesistenti o dubbi.

Non ne parliamo con riferimento a una persona o un’opinione specifica, ma come habitus generale. Non c’entra con la valutazione che ciascuno di noi è legittimato a fare: conosco persone di grande intelligenza e cultura che disapprovano l’opera di Limosani e persone che sospetto abbiano comprato il diploma di terza media che invece la esaltano. Negare che si tratti di un atto artistico significa però negare l’evidenza.

Mi sembra tutt’altro che casuale che il giornale che così duramente boccia Limosani sia lo stesso che da un po’ di tempo a questa parte propugna la causa del quadro che potrebbe essere un autoritratto di Leonardo da Vinci, in possesso di un collezionista foggiano la cui competenza in materia artistica è quella tipica di un autodidatta. Da quello che abbiamo potuto leggere il nominato collezionista avrebbe in animo, ove l’attribuzione del quadro risultasse autentica, di donarlo alla nostra città, per la quale rappresenterebbe certamente un potente fattore di attrattività. Vorrebbe però preliminarmente che gli venisse finanziato un esame al carbonio-14, del costo di qualche migliaio di euro, per stabilire se i materiali del quadro e del pigmento (chiedo scusa se uso dei termini imprecisi; vado a memoria) hanno una datazione compatibile con l’ipotesi, se cioè i materiali risalgono al XV o XVI sec.

Naturalmente, con tutto il rispetto per la passione e per le proclamate intenzioni del collezionista, si tratta di una storia scombiccherata assai. Perché servirebbe l’expertise di un critico specializzato in pittura rinascimentale e leonardesca che consideri l’attribuzione plausibile o anche solo non manifestamente errata, per avviare qualsiasi indagine ulteriore; perché non compete allo Stato e ai suoi organismi periferici l’attestazione dell’autenticità di un’opera d’arte, ma alla comunità (non sempre unita) dei critici e degli esperti; perché la datazione dei materiali –come è ovvio- non ci dice nulla sulla genesi e la paternità dell’opera, né costruisce un percorso plausibile su come nel corso dei secoli questo autoritratto sia arrivato da Amboise a Foggia. Quindi è –direbbe Montalbano- «nuddu ammiscatu cu nenti».

Eppure su questa assai avventurata pretesa del collezionista, per la quale abbiamo rimediato qualche pernacchia in giro, si sono realizzati convegni pubblici «ipotetici» (all’insegna del «come sarebbe bello se…»), presentate interrogazioni parlamentari, effettuati sopralluoghi di autorità regionali. Perché? Perché la ciucciaggine granezzosa, se questa è la corretta resa in Italiano, trova questa vicenda perfetta. L’artista di fama internazionale, colpevole di essere nato a Foggia e di volerle bene, è uno spacciatore di strampalerie; il ritrovamento avventuroso (di un’opera di Leonardo, nientemeno, che colpisce quanti credono che Saverio Altamura sia il nome di una ferramenta e Domenico Caldara un’agente di commercio della Vaillant) e il parere dell’appassionato autodidatta privo di titoli sono un buon motivo di per sé sufficiente a spendere danaro di tutti.

Come insegna il buon Nicolò da Cusa, il tifo per Leonardo e i boooh per Limosani raggiungono la coincidenza degli opposii. Hanno in comune l’obiettivo finale di non far nulla: nulla è stato fatto per il misterioso dipinto; e nulla si vuole fare per i tralicci. Il «ciucce granezzuse» ha come suo principale abito mentale la necessità che nulla si muova, nulla cambi, nulla disturbi la sua pacificata presunzione. D’altronde chi usa le parole con tanta leggerezza lo fa perché sa che sono prive di effetto, sa che nessuno le prenderà sul serio, sa che non avranno nessuna conseguenza che non sia la paralisi, condizione ben nota alla città. Ma questo è solo uno degli aspetti del Foggianesimo, Successivamente ne vedremo altri.

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