I fatti sono noti: Filippo Turetta, il crudele e infame assassino di Giulia Cecchettin, che è in custodia cautelare in attesa che gli venga irrogata la lunga pena detentiva che merita, riceve in carcere la visita dei genitori, Elisabetta e Nicola.
Il colloquio è sottoposto per comprensibili ragioni di sicurezza a intercettazione ambientale, per la banalissima ragione che vanno prevenuti sia i possibili tentativi di fuga sia quelli di suicidio o di autolesionismo. La madre e il padre dell’assassino, specialmente il padre, si sforzano di consolare in qualche modo il figlio, di dirgli che non è il maledetto essere disgustoso che lui ritiene, ma una persona che è stata travolta da un «momento di debolezza» e che non è l’unico a essersi macchiato di femminicidio.
Frasi inaccettabili e orrende? Certamente. Frasi che rinnovano il terribile dolore e l’irrimediabile lutto della famiglia della vittima? Senz’altro. Frasi che adombrano una sorta di «normalizzazione» di questi comportamenti atroci e abietti? Decisamente. Ma sono frasi che due genitori travolti da una tragedia che non hanno determinato spendono perché spinti dalla paura che il loro figlio, che già al momento dell’omicidio di Giulia aveva manifestato propositi suicidi, possa compiere un gesto estremo,
Perché purtroppo nelle nostre carceri succede spesso: secondo il Rapporto Antigone, fra il 2023 e i primi mesi del 2024 si sono uccise nelle nostre prigioni cento persone.
Al posto di Nicola Turetta avrei saputo dire e fare di meglio? Alla mia presunzione piace pensarlo; ma la verità è che non lo so, che non riesco neanche a immaginare cosa farei se una tragedia del genere devastasse la mia vita e la trasformasse in un inferno.
Perché l’amore per un figlio, per l’essere che hai visto nascere, che hai cresciuto, che hai protetto, non prevede revoche; e due voci dentro di te non taceranno mai. La prima ti dirà che non può essere il mostro esecrabile che le sue condotte rivelebbero e la seconda che ti torturerà chiedendoti cosa avresti potuto o dovuto fare, come avresti potuto e dovuto educarlo perché non diventasse così.
Voci entrambe assurde, naturalmente: la prima perché i mostri non esistono, esistono persone che si comportano come mostri; la seconda perché, quali che siano stati i supporti o i condizionamenti ricevuti, c’è sempre un momento, il momento prima della coltellata, della stretta alla gola, del colpo di pistola, in cui decidi da solo se sei un essere umano o no, se difendi il tuo retaggio e la tua anima o se la lasci andare nell’abisso.
Perché è vero, ha ragione Elena Cecchettin, la sorella della povera Giulia: quella morte è figlia di una cultura, quella del patriarcato; di una «normalità» distorta e abominevole, di un contesto del quale si nutre, al quale si abbevera la ferocia psicotica degli assassini, di quelli che «non accettavano la fine della relazione», che «o mia o della morte», che «non posso vivere senza di te, quindi ti ammazzo». Il linciaggio mediatico dei genitori dell’assassino non muove da questa consapevolezza, ma dal suo contrario. Per dirci che Filippo Turetta è un mostro, e così relegarlo ad una dimensione che non ci riguarda e non ci appartiene, accampiamo la plateale evidenza che sia cresciuto in una famiglia di mostri.
In realtà, a parte l’assassino, sono altri ad avere compiuto azioni mostruose per giunta senza alcuna motivazione emozionale o di coinvolgimento. La prima fra esse è quella dell’anonimo funzionario pubblico (non so se magistrasto di sorveglianza, agente di custodia o di polizia giudiziaria) che, venendo in possesso delle trascrizioni di un’intercettazione disposta per tutt’altri motivi, la cede, forse a pagamento forse per far bella figura, agli organi di stampa. E non meno mostruosa è la condotta dei responsabili di quegli organi di stampa che per guadagnare qualche copia venduta, qualche punto di share, qualche like, la sbattono a disposizione dell’inflessibile tribunale dei social.
Mercanti nel tempio della giustizia e in quello dell’informazione, questi secondi a me particolarmente odiosi perché ho sempre creduto di essere un giornalista. E non avrei mai accettato un’informazione del genere e non ne avrei mai scritto, né avrei consentito di scriverne su un giornale che avessi diretto. Il che spiega perché difficilmente oggi troverei lavoro in ambito giornalistico e certamente non vi farei carriera. Pazienza. Io insinsto a ritenere che nessuno di noi possa fare a meno della «pietas».
È una parola che non può essere tradotta con «pietà», e forse nemmeno con «compassione». Indica i doveri che ciascuno di noi ha verso gli altri, e in particolare verso i propri genitori e la propria famiglia, e contemporaneamente verso la divinità. È la consapevolezza che il nostro agire di individui non ha valore di per sé solo, ma per il nostro appartenere a qualcosa di più vasto.
La giustizia, le leggi, i tribunali, i giornali, gli articoli come questo e quelli molto più belli di questo, i film, i fumetti, i quadri, le fiction e quant’altro l’espressione umana possa concepire e partorire non esisterebbero senza la «pietas», senza la Dea che guidò il «pio Enea» dall’arsa rocca di Troia alla nuova città destinata a dominare il mondo. I ributtanti origliatori e gli indegni redattori di questa vergogna distruggono in radice l’idea stessa di comunità, che è empatia, comune sentire, capacità di immedesimazione.
È per questo che non proviamo altro che disprezzo per il vile assassino di Giulia: perché, perso nel buio labirinto di se stesso, ha cancellato crudelmente e scientemente un’esistenza che voleva asservita al proprio capriccio. E non merita minor disprezzo –anzi!- chi per convenienza manda al patibolo (per fortuna e per ora soltanto mediatico) due persone travolte dalla sventura. Perché non è solo il patriarcato a intessere e allevare sofferenze e crudeltà indicibili.
Quanto ai Dracone, Torquemada e Robespierre da tastiera, suggeriamo loro di segnarsi a mo’ di appunto l’aforisma che Fëdor Dostoievsky scrisse in calce a «I fratelli Karamazov»: «Uomo, uomo, non si può vivere del tutto senza pietà». State attenti al mostro che viene ad abitare le vostre menti e vi ruba il cielo e l’arcobaleno.