L’ultimo nastro di Samuel Beckett e la parola introvabile ooo

by Enrico Ciccarelli

L’occasione offertami dal Teatro dei Limoni di rinfrescare la mia conoscenza con Samuel Beckett, vecchia un po’ più di mezzo secolo, è una delle ragioni per le quali il mio è il mestiere più bello del mondo. Perché ti costringe sempre a studiare, dubitare, ripassare. Non importa quante sciocchezze tu abbia scritto in migliaia e migliaia di articoli; ce n’è sempre una da aggiungere, un’altra piuma di soffione da affidare al vento.

Parliamo quindi di questo colosso, questo Shakespeare irlandese, questo Premio Nobel dai capelli a spazzola e dai penetranti occhi azzurri che ha cambiato per sempre la storia del teatro e del linguaggio. Del linguaggio, sì; perché la lingua e i linguaggi furono il dominio, il terreno di caccia e l’enigma irrisolto di tutti i suoi ottantré anni di vita. Lingua di Dante, innanzitutto: l’Italiano e il Divino Poeta furono i primi a sedurlo, negli anni iniziali della sua carriera di docente al Trinity College di Dublino. E poi il Francese di Proust, altro autore amatissimo. E infine il grandissimo James Joyce, di cui fu segretario e assistente (e molto più tardi scrisse –vedi caso- un saggio sul magmatico e sulfureo impasto linguistico del «Finnegan’s Wake»).

Amò e poi respinse l’incantevole e folle figlia di Joyce, Luisa, che forse proprio dal suo abbandono fu definitivamente consegnata alla malattia mentale che la tenne in manicomio fino alla morte; ma questa, come quella del fugace rapporto di Beckett con Carl Gustav Jung, è un’altra storia, che andrà raccontata un’altra volta. Qui basti dire che, per essere il creatore di alcuni fra i più devastanti incubi dell’uomo contemporaneo, Samuel fu un giovane uomo pieno di vita, un campione di cricket che non disdegnava di fare bisboccia con goliardi e prostitute o partecipare a risse e zuffe.

Ma le parole restavano per lui sia servizievoli ancelle che tenaci nemiche. Così intitola il suo primo poemetto «Whoroscope», tradotto in Italiano come «Puttanoscopo» o «Oroscopata». Un gusto dell’ironia e del sarcasmo ribaldo che lo accompagnerà per tutta la vita, e che traluce anche in certi snodi drammatici  dei suoi capolavori e della sua stessa esistenza. Così definirà «roba da boy scout» il suo rischioso impegno nella resistenza francese del Maquis, e chiamerà spessissimo le sue opere teatrali «dramaticules», termine che potremmo tradurre con «drammaticaglie» o «drammicoli».

Già, perché dopo il suo trasferimento in Francia, nella seconda metà degli anni Trenta, Beckett scriverà sempre in Francese la prima stesura delle sue opere. Perché –sosteneva- gli era più facile scrivere «senza stile». Conoscitore eccelso del linguaggio, ne rifiutava la tirannide: torceva e ribaltava i significati, scarnificava e scomponeva lettere e frasi. E applicava lo stesso metodo ai generi letterari e ai media linguistici. Il romanziere Beckett non è molto dissimile dal poeta Beckett, dal drammaturgo Beckett, dal saggista e critico Beckett. E con la stessa disinvoltura Samuel usa i media del linguaggio: oltre a drammi del tutto o quasi del tutto privi di sviluppo scenico e di trama, affastella i celeberrimi «Atti senza parole» e i drammi per la radio e quelli per la televisione, e l’incubica pellicola «Film», un cortometraggio di 24 minuti con protagonista Buster Keaton, per cui scrive la sceneggiatura. Il tutto mentre redige un epistolario di più di quindicimila lettere. Fosse durato, avrebbe probabilmente scritto anche un fumetto, un manga, un videogioco. Perché lui è Samuel Beckett, un genio assoluto della scrittura: lui crea, e si affannino gli altri (editori, critici, spettatori) ad appizzicarci un genere.

Certo, il Nobel conferitogli nel 1969 lo consegna a una fama sgradita, e passa l’ultimo ventennio della sua vita a difendere la privacy della sua casa di Montparnasse, dove vive con la compagna della sua intera esistenza, Suzanne Dechevaux-Dumesnil, di qualche anno più anziana di lui, con cui per cinquant’anni ebbe un rapporto d’amore solidamente infelice. Schivo con i giornalisti, Beckett concedeva pochissime interviste, ma era spesso cordiale con studiosi e ammiratori. E oltre a produrre nuovi testi, approfittava della raggiunta notorietà per pubblicare opere che durante la sua giovinezza gli editori avevano rifiutato.

Nel 1989 la salute dei coniugi Beckett peggiora drasticamente. Suzanne, che ha quasi novant’anni, si spegne il 17 luglio. Samuel, affetto da un enfisema polmonare e molto probabilmente dal morbo di Parkinson, cade e si procura un violento trauma cranico, dal quale si rimette a stento, con i medici che monitorano i possibili danni cerebrali. Ma Beckett, l’autore di quell’Ultimo nastro di Krapp che diversi critici, malgrado i suoi sberleffi (il grande scrittore irrideva regolarmente le intepretazioni che si davano dei suoi testi) considerano autobiografico, non intende diventare qualcos’altro da Beckett. E nel letto della struttura sanitaria dove è ricoverato, con la sua quasi indecifrabile scrittura a ragnatela, compone «Comment dire». Una poesia (?) con cinquantadue a capo che va in cerca della parola giusta, del modo esatto con cui dire ciò che si intende. Un testo che naturalmente lo stesso Signore dei Linguaggi traduce in Inglese pochi mesi dopo, con il titolo «What is the world», «Qual è la parola». La parola che non troveremo, la formula che resterà celata ai nostri sforzi, per quanta grandezza e talento e spirito indomito il destino ci abbia donato. Come estremo omaggio postumo, i due editori di Beckett inseriranno questo testo uno fra le poesie e l’altro fra le prose. Tre giorni prima del Natale del 1989, a Parigi, Samuel Barclay Beckett, nato forse di Venerdì Santo a Dublino, smette di respirare, probabilmente chiedendosi ancora «Comment dire» in caso incontri finalmente quel Godot così a lungo atteso. Noi non sapremo mai quale fosse. Sappiamo solo che nel suo portafoglio trovarono una foto stropicciata. Era di Lucia Joyce, la donna con cui aveva tempestosamente rotto quasi sessant’anni prima. Perché in Beckett, si tratti di teatro o di vita, nulla è mai solo quello che sembra. Ma questa è un’altra storia.

Un gusto dell’ironia e del sarcasmo ribaldo che lo accompagnerà per tutta la vita, e che traluce anche in certi snodi drammatici  dei suoi capolavori e della sua stessa esistenza. Così definirà «roba da boy scout» il suo rischioso impegno nella resistenza francese del Maquis, e chiamerà spessissimo le sue opere teatrali «dramaticules», termine che potremmo tradurre con «drammaticaglie» o «drammicoli».

Già, perché dopo il suo trasferimento in Francia, nella seconda metà degli anni Trenta, Beckett scriverà sempre in Francese la prima stesura delle sue opere. Perché –sosteneva- gli era più facile scrivere «senza stile». Conoscitore eccelso del linguaggio, ne rifiutava la tirannide: torceva e ribaltava i significati, scarnificava e scomponeva lettere e frasi. E applicava lo stesso metodo ai generi letterari e ai media linguistici. Il romanziere Beckett non è molto dissimile dal poeta Beckett, dal drammaturgo Beckett, dal saggista e critico Beckett. E con la stessa disinvoltura Samuel usa i media del linguaggio: oltre a drammi del tutto o quasi del tutto privi di sviluppo scenico e di trama, affastella i celeberrimi «Atti senza parole» e i drammi per la radio e quelli per la televisione, e l’incubica pellicola «Film», un cortometraggio di 24 minuti con protagonista Buster Keaton, per cui scrive la sceneggiatura. Il tutto mentre redige un epistolario di più di quindicimila lettere. Fosse durato, avrebbe probabilmente scritto anche un fumetto, un manga, un videogioco. Perché lui è Samuel Beckett, un genio assoluto della scrittura: lui crea, e si affannino gli altri (editori, critici, spettatori) ad appizzicarci un genere.

Certo, il Nobel conferitogli nel 1969 lo consegna a una fama sgradita, e passa l’ultimo ventennio della sua vita a difendere la privacy della sua casa di Montparnasse, dove vive con la compagna della sua intera esistenza, Suzanne Dechevaux-Dumesnil, di qualche anno più anziana di lui, con cui per cinquant’anni ebbe un rapporto d’amore solidamente infelice. Schivo con i giornalisti, Beckett concedeva pochissime interviste, ma era spesso cordiale con studiosi e ammiratori. E oltre a produrre nuovi testi, approfittava della raggiunta notorietà per pubblicare opere che durante la sua giovinezza gli editori avevano rifiutato.

Nel 1989 la salute dei coniugi Beckett peggiora drasticamente. Suzanne, che ha quasi novant’anni, si spegne il 17 luglio. Samuel, affetto da un enfisema polmonare e molto probabilmente dal morbo di Parkinson, cade e si procura un violento trauma cranico, dal quale si rimette a stento, con i medici che monitorano i possibili danni cerebrali. Ma Beckett, l’autore di quell’Ultimo nastro di Krapp che diversi critici, malgrado i suoi sberleffi (il grande scrittore irrideva regolarmente le intepretazioni che si davano dei suoi testi) considerano autobiografico, non intende diventare qualcos’altro da Beckett. E nel letto della struttura sanitaria dove è ricoverato, con la sua quasi indecifrabile scrittura a ragnatela, compone «Comment dire». Una poesia (?) con cinquantadue a capo che va in cerca della parola giusta, del modo esatto con cui dire ciò che si intende. Un testo che naturalmente lo stesso Signore dei Linguaggi traduce in Inglese pochi mesi dopo, con il titolo «What is the world», «Qual è la parola». La parola che non troveremo, la formula che resterà celata ai nostri sforzi, per quanta grandezza e talento e spirito indomito il destino ci abbia donato. Come estremo omaggio postumo, i due editori di Beckett inseriranno questo testo uno fra le poesie e l’altro fra le prose. Tre giorni prima del Natale del 1989, a Parigi, Samuel Barclay Beckett, nato forse di Venerdì Santo a Dublino, smette di respirare, probabilmente chiedendosi ancora «Comment dire» in caso incontri finalmente quel Godot così a lungo atteso. Noi non sapremo mai quale fosse. Sappiamo solo che nel suo portafoglio trovarono una foto stropicciata. Era di Lucia Joyce, la donna con cui aveva tempestosamente rotto quasi sessant’anni prima. Perché in Beckett, si tratti di teatro o di vita, nulla è mai solo quello che sembra. Ma questa è un’altra storia.

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