Tralicci e feticci. Spunti per una enciclopedia del foggianesimo. 4 – La memoria a geometria variabile

by Enrico Ciccarelli

Il minimo sindacale dei doveri di un critico è di accettare di buon grado le critiche, specialmente se espresse in modo civile. Quindi, non avendolo potuto fare su facebook per chissà quale misterioso meccanismo creato da Mark Zuckerberg, desidero rispondere a un cortese interlocutore che si chiedeva se, al netto delle incursioni nel vasto pelago del foggianesimo, fosse garantito nella nostra città il diritto a esprimere e –perché no?- a urlare la propria contrarietà all’installazione dei tralicci sormontati da cuori proposta da Felice Limosani, senza per questo essere bollati come trogloditi incompetenti e incivili.

La risposta è sì, mille volte sì. Si può. Non solo l’espressione di un’opinione non qualifica e non squalifica nessuno, ma è un’ottima cosa che il discorso pubblico sia nutrito di consensi e dissensi. Spesso sui social, non certamente solo a Foggia, la discussione assume cadenze e modalità surreali; ma è meglio una discussione sguaiata e imperfetta di un malmostoso silenzio, dell’antica soggiacenza a un destino ingrato e mai scelto.

Non è nemmeno grave, a mio parere, che il motore principale che spinge più d’uno a partecipare alla discussione sia quello di guadagnarsi qualche spicciolo di visibiità a buon mercato, una sorta di conferma puntiforme della visionaria profezia warholiana secondo la quale a ognuno toccheranno quindici minuti di celebrità. Spiace però che questa inattesa visibilità, questa piccola epifania democratica e civica, sia utilizzata per rutti privi di consistenza, flatulenze assortite, intemerate sine causa.

Spiace soprattutto che protagonista di questa discussione sia la memoria a geometria variabile che è caratteristica consustanziale del Foggianesimo. L’ostentato e insistito desiderio di ricordare solo quello che fa comodo o quello che conviene alle proprie ossessioni e pregiudizi.

Non mi metto qui a discutere delle diverse nostalgie della Foggia che fu: è «il profumo del ricordo che cambia in meglio», per dirla con Guccini, e ha una sua intima tenerezza perché abitualmente chi la esprime non celebra davvero la memoria della comunità, ma solo quella della propria perduta giovinezza. D’altronde se da Sallustio in poi pensatori e filosofi, storici e poeti, romanzieri e drammaturghi hanno regolarmente usato le presunte virtù del passato per condannare i presunti vizi del presente, qualche motivo ci sarà.

Ma, almeno per quanto riguarda la storia recente, qualche sforzo di onestà intellettuale sarebbe necessario. Per dire –a titolo di esempio- che molti degli attuali difensori social della virginalità dei Campi Diomedei sono quelli che il Parco lo hanno combattuto e bloccato per tre lustri in difesa delle ubbie sulla sacralità dell’Istituto Regionale di Incremento Ippico e la necessità di riavere lì l’Ippodromo, con tanto di pista e tribunette.

La stessa corrente di pensiero (absit iniuria verbis) che da un paio di decenni, caso unico al mondo, tiene attigue le aule dove si insegna Economia alle stalle dove gli stalloni fanno la monta. La stessa che ha impedito il trasferimento dell’Istituto in ogni altra sede offerta, comprese quelle maggiormente spaziose, che avrebbero garantito maggiore agio a uomini e cavalli.

Il mio totale disaccordo con logiche e scelte di questo tipo non me le fa ritenere illegittime, intendiamoci; tanto più che i Foggiani sono talmente affezionati a qualsiasi crociata abbia i requisiti di arretratezza da donare qualche migliaio di firme alla petizione che voleva fermare il trasferimento dell’Istituto. Ma ci vuole una certa mancanza di senso del pudore e del ridicolo per ergersi oggi a paladini di ciò che si è cercato con ogni mezzo di boicottare.

Trovo anche penoso il «revanscismo postumo» che si vorrebbe operare sui lampioni fallo-fascisti di Piazza Italia. Devo dire che a suo tempo polemizzai aspramente con l’assessora ai Lavori Pubblici Maria Rosaria Lo Muzio (persona, peraltro, di notevole competenza e intelligenza) perché la rimozione dei vecchi portabandiera in ghisa mi sembrò oltraggiosa della nostra memoria. D’altronde in quegli anni ci furono diversi scempi, tali da indurre un gruppo di intellettuali a proporre un manifesto intitolato «La città dolente».

Il risultato fu che Paolo Agostinacchio, sindaco di quei cambiamenti e di quelle perdite (lo ricordate l’Arco di San Michele?) malgrado un gran numero di rivali, venne rieletto trionfalmente al primo turno; i gelosi custodi della tradizione e della memoria dormivano tutti? Ma forse dipese dal fatto che i social non c’erano. Tuttavia, a rendere grottesca, secondo il mio discutibile punto di vista, la proposta di sostituire i lampioni con i tralicci è l’idea che questa rimozione testimonierebbe lo «spirito antifascista» della città.

Ammesso che questo spirito ci sia (personalmente non ne sono convintissimo, spiacente), lo volete esprimere proprio a Piazza Italia, cioè una piazza architettonicamente, esteticamente e valorialmente fascista? Una piazza su cui insiste il fascistissimo Palazzo degli Studi progettato da Marcello Piacentini (per tacere del poco distante e non meno littorio Itis «Saverio Altamura») lo strafascista Palazzo della Bonifica, il Palazzo delle Statue e la Caserma Miale, e che ha al centro quel Monumento ai Caduti che è una specie di breviario dell’estetica scultorea di regime? Un po’ di serietà, suvvia!

Non nascondo che in generale il partito dei «Sì, ma non lì» mi dà l’idea soprattutto di accampare pretesti perché l’opera non si faccia. È però un’impressione, che potrebbe essere prevenuta. A me pare che ai Campi Diomedei l’ampiezza degli spazi circostanti e l’assenza di edifici limitrofi valorizzerebbe l’opera più che altrove, permettendo inoltre all’Amministrazione Comunale, come ulteriore atto di linearità e trasparenza del progetto di acquisire il parere della Sovrintendenza.

Parere della Sovrintendenza (giustissimo chiederlo anche se non è vincolante) che attendo con curiosità incompetente. Mi scusino i miei concittadini che sanno tutto, ma a me la prescrizione di coprire gli scavi dell’insediamento neolitico e il divieto di impiantare alberi di alto fusto che possano danneggiare la visione prospettica della facciata del mai abbastanza lodato Iriip sembrano strane assai. Ma sono sicuro che, in una città che rigurgita di esperti qualificati, così rispettosa dei beni architettonici e così attenta alla memoria, qualcuno di buon cuore me le spiegherà. Alla prossima.

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