VeniceLand

by redazione

Sono alla scrivania, distogliendo ogni tanto gli occhi dal pc per guardare dalla finestra i tetti di fronte, quando arriva un messaggio di Annalisa: siete a Venezia per il Redentore.

Il Redentore! Ero così presa dagli spettacoli della Biennale Danza che non mi ero accorta che siamo alla terza domenica di luglio, giornata in cui Venezia vive la sua festa più amata, quella che ricorda la fine della peste del 1575.
La chiesa del Redentore fu costruita su progetto di Palladio dopo che il Senato veneziano, non sapendo evidentemente più che pesci prendere, chiese l’aiuto divino per porre fine all’epidemia che aveva decimato la città, facendo voto di costruire una chiesa quando le morti si fossero arrestate. Intervento divino o fine del ciclo epidemico che sia, la peste arretra e, nel 1577, viene posta la prima pietra del Redentore.
In occasione della festa, ogni anno, viene allestito un ponte galleggiante che collega la Giudecca con le Zattere (le fondamenta di fronte alla Giudecca) e i veneziani sfilano per andare alla chiesa del Redentore, per fare una preghiera o semplicemente mantenere la tradizione.
A mezzanotte, i fuochi d’artificio illuminano il bacino di San Marco e creano giochi di riflessi sull’acqua, mentre i veneziani assistono dalle rive o dalle centinaia di piccole imbarcazioni che si riversano nel Canale della Giudecca e in Bacino.
La festa, per i più giovani, continua sino all’alba, con i concerti e le schitarrate al Lido (e con buone dosi di alcol).
Decido di comportarmi (di nuovo, nella mia vita) da brava veneziana e di attraversare il ponte galleggiante per poi assistere ai fuochi, ma scopro che l’ingresso per la festa è contingentato ed a numero chiuso e per accedere a San Marco, Giudecca e Riva degli Schiavoni, se non si è residenti, bisogna prenotare: distorsioni ultime di un turismo che ha snaturato una città nella quale, ormai, il numero quotidiano dei turisti supera quello dei residenti. Ma su quest’argomento tornerò in seguito.
Queste considerazioni sul turismo che sta inghiottendo e alterando una città, sino a spingere i residenti a fuggire per trasferirsi in “terraferma”, mi riportano al cuore dello spettacolo visto ieri alla Biennale Danza, Natural Order of Things di GN|MC Guy Nader|Maria Campos, che declina in danza la complessità e l’assetto dinamico dei microcosmi e dei sistemi naturali auto-organizzati. Venezia è un sistema che sta collassando?
Ci vuole coraggio – Natural Order of Things
A questa domanda non rispondo qui: torno allo spettacolo, portato in scena in prima italiana al Teatro alle Tese all’Arsenale.
La presentazione parla di “movimenti ciclici e ripetitivi” e già penso che ci vuole coraggio, per costruire un’opera su movimenti ripetitivi.
Mi convinco che coraggio è una delle parole chiave dello spettacolo già dai primi minuti, in cui una fila di danzatrici e danzatori, uno dietro l’altro, si disequilibra verso un lato e, come per riprendere l’equilibrio, esegue a compensazione quattro passi laterali, nel silenzio totale. La scena si ripete, dall’altra parte. La fila si muove insieme restando coesa, perfettamente. Ancora. Ancora. Più e più volte, sempre uguale.

Mi accorgo che la musica è costituita dal rumore assolutamente sincronizzato dei quattro passi eseguiti dai danzatori sul tappeto di danza. Un’unica luce di taglio illumina la fila, prolungando le ombre affilate sul pavimento.
Oltre a questo, null’altro. Una scena uguale a sé stessa che si ripete in un tempo che si dilata.
Scelta coraggiosa, sicuramente, quella di proporre ad inizio spettacolo un ripetersi di movimenti nel silenzio, rischiando che lo spettatore si annoi.
Quel che accade, invece, denota la professionalità dei coreografi: non solo il pubblico non si annoia, ma attende. Si crea una specie di suspance.
Il ripetersi dei movimenti spinge la mia mente a fantasticare e la fila di corpi mi fa ripensare a quel giochino che forse tutti conosciamo, che riproduce il pendolo di Newton, costituito da una fila di palline sospese a due fili. Se si sollevano e si lasciano cadere una o più palline, queste, sbattendo contro quelle ferme, trasferiranno il loro movimento alle palline dall’altra parte della fila, che si solleveranno a loro volta.
All’improvviso, sorpresa: si crea un piccolo imprevisto; un danzatore, invece di eseguire i quattro passi, resta fermo mentre la fila si sposta di lato e rimane solo, in attesa che la fila ritorni.
Da questo momento in poi, la ciclicità dei movimenti è interrotta da imprevisti talvolta simpatici, talvolta addirittura sorprendenti. Andando avanti nello spettacolo, pian piano mi accorgo che anche gli imprevisti hanno una loro ripetitività.
L’ordine della fila sembra resistere a queste variazioni, dopo le quali essa si ricompone continuando il suo movimento laterale, destra, sinistra, destra, sinistra. Il pendolo continua.
Esplosione. Una presa, un volo. Un corpo si solleva nell’aria, leggero.
E così, in un crescendo mozzafiato che continuerà sino alla fine, i danzatori creano e rompono un ordine, plasmando strutture rigorose rotte da momenti di apparente caos, in cui compiono incredibili volteggi.
I corpi volano, i danzatori si afferrano, lanciano in aria i loro compagni, si appoggiano l’un l’altro per creare nuovi equilibri condivisi; diventano passivi, morbidi, mentre vengono sollevati, lanciati, ripresi; si arrestano in pose sorprendenti mentre sono in equilibrio sul corpo di un compagno; creano gruppi e duetti che si alternano in sollevamenti e salti mortali.
Anche per questo, ci vuole coraggio!
Anche in questo apparente caos, in cui i corpi che volano mi ricordano quasi gli spruzzi che zampillano da una fontana creando giochi d’acqua, la precisione è sovrana.
I tempi sono scanditi perfettamente, in modo cronometrico, così che terminato un volo ne inizi un altro, terminato un gioco di equilibrio di un gruppo si passi all’azione di un altro. Il pubblico, pur in questo succedersi continuo e solo apparentemente simultaneo di azioni, riesce a seguire tutto, restando col fiato sospeso e con una sensazione di immane stupore per i volteggi in scena.
Il talk
Un lavoro di questo tipo, in cui la danza diventa anche acrobazia, richiede una tecnica impeccabile ed una fiducia estrema.
Di ciò si parla anche nel talk finale con i coreografi, che rimarcano: “Per noi prima di tutto il partnering nasce perché siamo due, facciamo cose in due che da soli non si possono fare; il nostro interesse principale è nel contatto tra i due partner. All’inizio usavamo in scena molti oggetti (…) e questo rendeva più facile la narrativa e più teatrale lo spettacolo; poi, con il tempo, questi oggetti li abbiamo eliminati e abbiamo lasciato sul palco soltanto i corpi (…) e con questi corpi noi gochiamo ma, anche, dimostriamo la capacità che hanno questi corpi. Il partnering si sviluppa con il peso; facciamo un sacco di lavoro sulla fiducia perché ci sono delle parti della performance in cui si rischia, ci si affida agli altri rischiando, si arriva in partnership dove da soli non si riuscirebbe ad arrivare” (Campos)
“Tutto questo è basato anche su uno studio anatomico, su come funzionano le nostre giunture, (…) e sulla curiosità riguardo a cosa possiamo sviluppare” (Nader)
“siamo insieme in Studio per due mesi, all’inizio, per conoscerci (…), per conoscere non solo la persona ma anche il corpo, il peso; cominciamo ad esplorare le tecniche che ci portano a danzare insieme con la gravità e il peso. Di solito i ballerini fanno molto movimento attivo; in questo caso, invece, è anche molto importante abbandonarsi, lasciarsi andare alla gravità”. (Campos)
Il cuore dello spettacolo è accennato in seguito: “il nostro approccio è basato su esercizi fisici che sono collegati a nozioni fisiche, a gravità, tempo e spazio; in questo progetto, l’idea di partenza parte dai ballerini in un asse, in linea, che si spostano dall’asse mossi dal peso e dalla gravità; esploriamo delle difficoltà fisiche, che ci portano a concentrarci poi su una composizione che è più naturale possibile” (Nader).
Ciò concretizza in scena l’intento dichiarato dai coreografi, ovvero “Noi stessi ci riveleremo come un organismo inventato che si manifesta nella resistenza alla perdita di ordine e nella tendenza al caos, riorganizzandosi in modo armonico e geniale. Un inno alla vita e alla sua fragile atmosfera, questa protesta attraverso armonia e bellezza è, crediamo, l’unico modo di ripristinare l’equilibrio e recuperare un legame con la natura” (dal catalogo We Humans – Biennale Danza 2024, pag. 190).
L’arte della tecnica e la tecnica dell’arte
Anche in questo spettacolo (come in quello visto ieri, Waves), le luci svolgono un ruolo importantissimo; accennano, suggeriscono, evocano.
Un solo faro, di taglio, suggerisce ad inizio spettacolo la “geografia spaziale” dei movimenti successivi, descrivendo ombre laterali sul pavimento.
Oppure, una serie di piogge trasforma i danzatori in figure nere che si stagliano sul palco.
Ancora, dei fronte creano ombre sul fondo, dando l’idea di una moltiplicazione delle persone in scena.
Gli interventi luce sono minimali e precisi, assumono una propria personalità. In alcuni momenti prendono la scena, in altri rafforzano i movimenti dei danzatori.
Divagazioni
Mio figlio Jacopo, alla fine del primo spettacolo visto insieme, mi ha posto la domanda da un milione di dollari: mamma, che vuol dire questo spettacolo?
Ma la danza è un’arte astratta. Il significato di un’opera di danza è un incontro tra quel che vuole suggerire il corografo e quel che lo spettatore coglie e reinterpreta.
E non è detto che tutte le intenzioni e motivazioni del coreografo vengano colte: durante la strada dai danzatori verso lo spettatore, i movimenti assumono significati diversi a seconda di chi li guarda, delle proiezioni, del vissuto, dello stato emotivo del pubblico.
Va bene così; anzi, così deve essere. Trovo che la reinterpretazione sia, in fin dei conti, una forma di libertà.

Se il coreografo si esprime con onestà, il cuore dell’opera sarà comunque percepito; il pubblico aggiungerà a quel cuore le proprie sensazioni, rendendolo vivo.


Tutto questo per raccontare che ieri, mentre guardavo le espressioni impassibili (neutro totale) dei danzatori nella fila e il loro occasionale scomporsi in azioni caotiche, i miei pensieri hanno avuto modo di evocare immagini come il pendolo, gli zampilli, ma anche di andare filosoficamente oltre e considerare la nostra quotidianità, il ripetersi naturale di sonno, fame, veglia; di realizzare che anche nelle vacanze, in molti, replichiamo abitudini, come recarci nello stesso posto, alla ricerca forse di un equilibrio, di una ciclicità rassicurante.
Ma mi distolgo di fretta da queste considerazioni: devo correre, letteralmente, per riuscire ad entrare al prossimo spettacolo.
Per saperne di più: gn-mc.com

Francesca Trisciuoglio Capozzi

You may also like

Leave a Comment

Non è consentito copiare i contenuti di questa pagina.