The Bench di Cristina Caprioli, il corpo può danzare anche nel silenzio

by redazione

“Tutto il mondo è un teatro e gli uomini e le donne sono semplicemente attori”. Questa è l’annotazione a mo’ di dedica che ho trovato nel libro usato che ho acquistato ieri, alla libreria Acqua Alta, e mai annotazione mi è sembrata inserirsi meglio nell’”atmosfera mentale” da me vissuta al momento dell’acquisto.

Sono giorni che vado chiacchierando su Venezia, sul teatro e su quanto Venezia sia un teatro e mi tornano alla mente alcuni episodi.

Come quella volta che, tornando di notte tardi dopo una serata per locali alla Fondamenta della Misericordia, troviamo una compagnia di ragazzi che fa gesti strani vicino ad un punto di raccolta di rifiuti ingombranti, nei pressi di un canale. Ci avviciniamo.

Un brunetto corpulento, con in testa una sorta di corona fatta di carta di giornale, siede stravaccato su un divano lasciato per la nettezza urbana, mentre intorno tre ragazzi si prostrano al Re dell’Immondizia, declamandone le gesta.

Altra notte, altra situazione assurda. In Campo San Giovanni e Paolo, una bricola decorata come un totem arde, mentre veneziani, studenti e turisti ci danzano intorno improvvisando canti e gesti tribali (so anche chi portò lì la bricola e chi fu l’artefice della strana festa, ma non lo dichiarerò qui).

Venezia è anche la cornice giusta per personaggi quasi da favola, che morirebbero appassiti in qualunque altro posto del mondo.

Antony, costantemente abbigliato come un vero dandy e che, innamoratosi di una mia compagna di casa, la invita a suonare il flauto traverso nei campi delle Vignole.

Fiora, che colleziona imprecazioni in tutte le lingue, fermando gli stranieri e chiedendo loro di dire parolacce che appunta in un quaderno.

I BT boys, che seguono Bruno Tosi ovunque e movimentano le serate nei locali, come un gruppo di giovani anticonformisti intorno al loro sostenitore (tra cui Michele, che inseguì un’altra mia compagna di casa tentando di consumare un’avventura clandestina tra le calli di Venezia, e che tra le stesse calli labirintiche fu seminato).

Questi ricordi si intrecciano con la domanda che mi sono posta il primo giorno qui, ovvero quanto influisca il contesto su come lo spettatore percepisce uno spettacolo.

In qualche modo, Venezia ti predispone al teatro.

A Foggia, invece, città distrutta dai bombardamenti e, forse, mai davvero interiormente ricostruita, fare teatro è un quotidiano atto di resistenza.

The Bench (La panchina) di Cristina Caprioli

Propongo subito un’altra domanda, LA domanda, quella che fa discutere e, anche, litigare i coreografi oggi: cosa è la danza?

In un mondo in cui la globalizzazione ha reso evidente che la danza non può più essere approcciata come arte pietrificata, che sia in un vocabolario (classico, moderno, contemporaneo), in una zona geografica o in una scelta musicale, cosa sia la danza è una domanda che non vuole una risposta, bensì una riflessione.

Ad esempio, la danza ha bisogno della musica? Non necessariamente. Il corpo può danzare anche nel silenzio.

Ha bisogno di un teatro? Di un pubblico?

Di quanti gesti ha bisogno la danza per essere danza? Quanto devono essere elaborati?

Mi sovviene una lezione con le Orex. Mi siedo, chiedo di mettere di base una musica ascoltata per la prima volta il minuto prima.

Tutto quel che faccio è restare seduta e muovere solo la testa, lentissimamente, per tutta la durata del brano, girandomi da una posizione frontale ad una laterale. E’ danza? Tutte concordano di si.

La risposta di Cristina Caprioli (Leone d’Oro alla carriera della Biennale Danza di quest’anno) a questa fatidica domanda è intuibile durante The Bench, che non so se definire uno spettacolo, una performance o un manifesto attuato invece che scritto.

Le giovani danzatrici e i giovani danzatori del College Biennale si riversano sul ghiaietto del viale che congiunge via Garibaldi e la Riva dei Sette Martiri: un viale alberato, con panchine laterali; di solito, semplice zona di passaggio per i veneziani che, dalla vicina fermata del vaporetto, tornano a casa e zona di sosta per i turisti, stanchi per la lunga passeggiata che li porta alla Biennale o a San Pietro.

I danzatori riempiono il viale, fermi, assumendo in modo alterno pose plastiche o improbabili, inclinati di lato o dietro.

Restano fermi; tutto quel che fanno è girarsi tutti insieme, ogni tanto, verso un lato o l’altro del viale.

Il pubblico è formato dai passanti e non c’è musica se non i rumori di fondo, i cinguettii e il canto fragoroso delle cicale.

La scena resta questa, “semplicemente” una presa di coscienza: ci sono, ci siamo, ecco i nostri corpi che, anche stando fermi, comunicano in modo imponente.

Un attimo prima che gli astanti vengano presi dall’esasperazione per il protrarsi della situazione in cui non succede nulla, i danzatori iniziano a muovere passi di danza sulla ghiaia, spostandola con i piedi, creando un rumore diffuso, alzando la polvere. Si danza al canto delle cicale, ognuno apparentemente per conto suo, anche se nei movimenti è chiaro un linguaggio comune.

Dura poco.

I danzatori si avviano verso le panchine che costeggiano il viale e cominciano ad usarle come si farebbe con gli elementi di un parco giochi, mettendosi a testa in giù, scivolandoci sopra, allungandosi su di esse.

L’area performativa, in questo modo, si diffonde nell’intero viale e si disperde.

Passando in mezzo al viale lasciato libero dai danzatori, qualche viaggiatore ignaro si chiede perché siano tutti di lato e perché tutti lo guardino. Così anche il pubblico diviene attore, occupando inconsapevolmente un’area che, sino ad un attimo prima, era area scenica e che potrebbe tornarlo da un momento all’altro.

The Bench è composta da diverse panchine, che scandiscono un sentiero lungo un viale del parco. Camminando sulla ghiaia, piegandosi sulla seduta, la danza affronta le circostanze ed enuncia il proprio dilemma.

Pubblico e danzatori seguono il percorso e ascoltano. Una storia si trasforma in tante, ogni corpo diventa un grappolo.

Il parco diventa un parco giochi per la ri-creazione all’aria aperta” (da We Humans, Catalogo Biennale Danza 2024, pag. 406).

Mentre le danzatrici e i danzatori giocano con le panchine, finisco per distogliermi, per chiacchierare con i miei figli, per guardare i gatti.

E realizzo che, forse, proprio in questo sta la poesia della performance cui sto assistendo: la danza è entrata nel quotidiano; dopo un momento di attenzione sono tornata alle mie cose, mentre la danza continua intorno a me, creando un mondo più poetico, più armonico, più accogliente.

Gesti oltre l’ordinario irrompono dolcemente nella vita di tutti i giorni, disegnando scenari alternativi, fantasie, possibilità da cogliere.

Francesca Trisciuoglio Capozzi

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