Maschere – Venezia è un teatro

by redazione

La giornata è più fresca e avventurarsi in una lunga passeggiata è più fattibile. La cappa di umidità che avvolgeva Venezia si è sfrangiata; lentamente, camminiamo tra le calli, dirigendoci al ponte galleggiante allestito per il Redentore, in direzione Giudecca.

Mentre passeggio, cerco di ricordare la storia legata al luogo dove alloggio: il Sotoportego de siora Bettina. Come molte storie veneziane, mi è stata raccontata quando vivevo qui, ormai decine di anni fa, ed ormai si è diluita nella memoria; dunque, potrei anche sbagliarmi se vi racconto che la siora Bettina era la proprietaria di un casino e che sul soffitto del sotoportego c’era uno spioncino che, guardando dal pavimento del casino, serviva a controllare chi bussasse alla porta prima di aprire.

Faccio un salto indietro nel tempo, al Settecento. Immagino i casini, luoghi in cui si giocava d’azzardo, in cui si consumavano incontri clandestini ma, anche, si aprivano accese discussioni letterarie e politiche.

Ecco una bauta che entra. Chissà chi si cela dietro quella maschera bianca, sotto quel mantello e tricorno che coprono integralmente la persona.

Recarsi ai casini in maschera era usuale. Serviva, per l’appunto, a non farsi riconoscere; la parte inferiore della maschera della bauta, allargandosi verso l’esterno, consentiva addirittura a chi la indossava di mangiare e bere senza doverla levare.

Altra maschera tipicamente veneziana è la moretta, indossata dalle donne e retta da un bottone posto dentro la maschera, dietro la bocca. Il bottone veniva tenuto tra i denti e rendeva impossibile parlare. La moretta, di forma rotonda e completamente nera, si dice venisse imposta anche alla servitù quando si recava fuori a far commissioni e spese, per evitare i pettegolezzi sui padroni di casa.

Ad ogni modo, continua a lasciarmi perplessa che una maschera femminile sia progettata in modo da levare a chi la indossa la possibilità di parola e poco mi convincono le veneziane che avanzano tentativi di difesa della moretta, sostenendo che le donne hanno anche tutta un’altra serie di maniere per farsi capire.

Comunque, detto molto semplicemente, resta il fatto che a Venezia si girava anche in maschera. Tutto l’anno. Una città-teatro per indole.

La giornata continua a scorrere lenta; seduti ad un tavolo della Giudecca, osserviamo Venezia da una prospettiva diversa, sin quando i gatti veneziani non attirano la nostra attenzione. Uno splendido micione rosso viene a stendersi dietro la vetrina del bar, mentre altri due lo guardano da una finestra al primo piano.

Ma è ora di andare: alle 17.00 c’è il prossimo spettacolo, Posguerra di Melisa Zulberti.

Posguerra

Entrando, la prima cosa che mi colpisce è la scenografia, che racchiude un’azione già in corso.

Una serie di alti parallelepipedi, con rivestimento effetto specchio, sono disposti più o meno in cerchio in mezzo alla pedana, orientati in modo apparentemente casuale; frammentano così lo spazio scenico, creando con le loro pareti una zona di demarcazione tra la parte interna e quella esterna. Le superfici dei parallelepipedi riflettono quel che hanno di fronte: altri parallelepipedi, pareti, fondo scena; mi ricordano i labirinti di specchi.

Si delinea così un freddo scenario postapocalittico in cui le danzatrici, con costumi grigi, protezioni sul petto ed elmetti con action cam, compiono movimenti puliti, definiti, quasi spogli.

In scena ci sono quel che resta di una costruzione e, anche, quel che resta del movimento.

Le danzatrici cominciano ad usare i parallelepipedi per fare altalene: una da una parte, una dall’altra, si legano alle strutture e ci salgono con i piedi in verticale; mentre una sbilancia la struttura da una parte, la danzatrice dall’altra parte viene sollevata, e viceversa.

Le altalene si prolungano per diverso tempo; ne resta una; una delle due danzatrici si allontana; l’altra rimette la struttura in piedi da sola, con estrema fatica.

Guardando le danzatrici utilizzare quel poco che hanno a disposizione per inventare gesti, mi viene alla mente una mostra di foto vista a Napoli, alla Galleria Borbonica.

Un gruppo di bimbi rovista tra le macerie dopo i bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale, per cercare pezzi di metallo da trasformare in giochi o da rivendere.

La musica incalza, le danzatrici entrano nello spazio suggerito dalle strutture e -disorientamento- si attivano all’improvviso le action cam, così che il pubblico guarda in diretta con gli occhi delle danzatrici: quel che viene inquadrato dalle action cam è proiettato sul fondo.

Le figure tra gli specchi si moltiplicano, lo spazio si sfrangia in mille superfici, le luci e i riflessi delle pareti specchiate si diffondono in tutto il teatro, coinvolgendo totalmente il pubblico, che viene chiamato in causa senza mezzi termini.

L’ansia cresce, mentre ci si perde tra i parallelepipedi insieme alle danzatrici, con una visuale continuamente parziale e con l’impressione costante che qualcuno possa spuntare da dietro l’angolo in qualsiasi momento.

Un colpo, due. Le danzatrici cadono, come colpite da spari. Tremano. Le telecamere proiettano visi che urlano. La scena si dilata in maniera estenuante.

Un altro colpo. Cadono tutte le pareti, una struttura tira giù l’altra, come nel domino cinese (un vero coup de theatre, devo dire).

Due danzatrici sembrano sopravvivere; tremano intensamente. Tra le rovine, si fanno strada trascinandosi. Una si aggrappa alle caviglie dell’altra, sin quando non cede. L’altra non si ferma ad aiutarla, continua ad avanzare tremando. Le luci si spengono sui due corpi senza vita.

Posguerra “si immerge in una terra effimera dove il corpo diventa campo di battaglia, opponendo resistenza sia all’esterno sia a sé stesso (…). È uno stato fisico, intimo e globale che a fronte d’incertezza, disorientamento e alienazione aspira a trovare risposte nuove, con la reazione di uno spazio in cui una molteplicità di corpi costruisce una geografia in continua resistenza e ricostruzione”. Ancora: “Noi umani, esistenze sociali, ci identifichiamo con le pratiche dell’essere e del persistere” (We Humans, Catalogo Biennale Danza 2024, pagg. 320 e 324).

Riflessi e riflessioni

Esco dal teatro con uno stato d’animo ambivalente.

Momenti di Posguerra continuano a risuonare e suscitare in me sensazioni di coinvolgimento; rivivo l’azionarsi delle action cam, che ci sbattono brutalmente nel mezzo dell’azione, che ci fanno vivere con le danzatrici l’ansia del disorientamento; rivedo i riflessi delle pareti specchiate che a tratti inondano le pareti di tutto il teatro, muovendosi insieme ai fari.

Ma vedo anche la scena finale, che ho trovato stucchevole, con una musica da toni vagamente malinconici ad accompagnare la morte dell’ultima superstite.

Una scena forse un po’ troppo lunga e un po’ troppo mielosa, che sarebbe stata, sempre forse, più efficace con una musica più neutra e riducendo la durata. Il morire sotto le macerie non ha bisogno di fronzoli.

Mentre mi chiedo, dirigendomi verso l’uscita dell’Arsenale, quale possa essere la risposta umana alle domande generate da Posguerra, la risposta arriva chiara con la voce di un’altra opera d’arte che si staglia enorme sul fondo di un cielo celeste e terso: Building Bridges di Lorenzo Quinn, con le sue 12 enormi mani a formare una sorta di ponte e a rappresentare amicizia, fede, aiuto, amore, speranza e saggezza.

Francesca Trisciuoglio Capozzi

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