I dieci passi dell’addio di Luigi Nacci, il graffio che non cicatrizza e la responsabilità di aver ferito chi amava

by Giorgia Ruggiero

Un uomo si innamora di un’altra donna, che non è la sua. Devono separarsi. Per lasciarla andare, deve compiere dieci passi. È come un cammino, un sentiero, la fine di un amore.

Non sa come si fa a lasciarla.

Vai da uno psicologo. Gli dicono gli amici. E lui invece scrive un libro. Forse le parole possono aiutarlo di più: quando lo finirà, l’avrà lasciata andare. Sarà pronto al decimo passo, l’ultimo del loro amore: salutarla. Dirle Ciao.

In I dieci passi dell’addio, Luigi Nacci racconta – come un fiume in piena – un graffio che non cicatrizza: la responsabilità di aver ferito chi amava.

Come si vive adesso? Come si cammina nella loro casa, ora che è solo sua? Non è una casa, scrive, è diventato un bivacco, un accampamento.

Mentre evita gli scatoloni e sopravvive al vuoto, al lutto, ripercorre gli errori, i torti, le ragioni, le foto. Il punto in cui è morto – non morirà mai – quello che provava. Ma poi, si chiede, esiste davvero un punto, un giorno,  in cui finisce?

Prova a cercarlo, a ricordarlo. Perché per guarire non può ignorare niente: dimenticherebbe. Cancellerebbe tutto quello che si sono scambiati… tutte le frasi, tutta la pioggia:

Buongiorno amore mio. Sai quanto ti amo? Migliorerò. Cosa farei senza di te? Copriti. Non avere brutti pensieri. Hai la minestra in frigo. Promettilo. Hai dormito bene? Mi ci porterai? Sei dolce. Mostrami tutto. Sei felice? Mangia. Ce la faremo. Avrai poche cose, tra quelle cose ci sarò io.”

E non vuole dimenticare.

Così, tra le righe di un dolore profondissimo raccoglie ogni fase, ogni pensiero sincero, non contaminato da alcun luogo comune, di un uomo che cerca le sue risposte, che percorre la via più tortuosa che mai solcherà.

Eppure anche quella che prima o poi solcano tutti.

Cadere nel banale, raccontando di un amore – cosa, di più consueto? – sarebbe stato facile. E invece Nacci ce la fa. Con poesia, frivolezza, con l’amore stesso, che lo guida, lo incoraggia, seduto accanto a lui.

Ciò che è stato vive – sopravvive – negli abbracci delle altre persone.  O in due anziani che si danno la mano per strada. Che, forse, si sono perdonati.

“Sai qual è il dolore più atroce?

Il dolore più atroce, disse, è che non invecchieremo insieme.”

Eppure c’è qualcosa che fa pace con quello che resta, che l’atrocità la rende ridicola, la rimpicciolisce:

“L’amore però non si conclude mai, perché ciò che non ha principio non ha fine.”

Forse, i libri da avere sempre sul comodino non sono quelli che ti portano dall’altro capo del mondo, dentro storie che non vivrai mai, lontano dalla realtà che vivi. Quelli, forse, servono a ignorarla. A ignorarti.

Forse, a dover esserci sempre tra la polvere, sono quelli come questo. Non ti allontaneranno dalla realtà, ma te la mostreranno. Potrai capirla un po’ più di prima. Potrai vederla, almeno.

E guarderai con nuovi occhi le persone che ti stanno intorno, di fianco. E non le vedrai da sole… ci vedrai anche quell’amore che si sono caricati sulle spalle. Magari è intatto, magari è finito. Infinito.

Come sentire un lutto, anche tu. Come amare, anche tu. Come lasciare andare, anche tu. Un’altra volta.

“Questo dovevo dirle: ci lasciamo, non ci lasceremo mai. Non siamo più niente, siamo una cosa sola.”

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