Foggia verrà chiamata Due Cuori? L’affascinante proposta di Felice Limosani alla città è anche una sfida alla nostra pigrizia

by Enrico Ciccarelli

Un artista di origini foggiane, di fama se non planetaria quanto meno internazionale, vuole lasciare in dono alla città della sua giovinezza un’opera frutto del suo talento: due grandi strutture di acciaio zincato vagamente antropomorfe, alte più di venti metri, che innalzano e sostengono due cuori luminosi e purpurei.

Quest’opera imponente dovrebbe sorgere nel nuovo Parco dei «Campi Diomedei» e sarebbe totalmente gratuita per i bilanci pubblici, visto che i costi vivi per la sua realizzazione (l’artista ha rinunciato a ogni compenso) dell’ordine di non meno di duecentomila euro, sarebbero sostenuti da una cordata privata di una decina di imprenditori che preferiscono restare anonimi e dalla Fondazione Monti Uniti, unica costretta a palesarsi per le esigenze di trasparenza legate al suo statuto di Fondazione bancaria.

Nello scarso migliaio di anni da che Foggia esiste, è la prima volta che il mecenatismo privato finanzia un «monumento»; in generale, essendo la città luogo «di rapide ascese e rapide cadute», come annota Costantino Perifàno, la committenza artistico-architettonica è storicamente flebile. Non mancano, specie in tempi recenti, esempi di opere di interesse pubblico realizzate in tutto o in parte con fondi privati, dalla «rotonda di Belèn» frutto dell’iniziativa di Pio e Amedeo al grazioso giardinetto di Viale Michelangelo targato Matteo La Torre ed Euronics all’importante contributo dei soci della Fondazione «Apulia felix» al progetto «ArpinArts» di Santa Chiara. Ma per un’iniziativa come quella proposta da Felice Limosani (è lui l’artista di cui stiamo parlando) si tratta di un debutto assoluto.

Il fatto che questi donatori vogliano restare anonimi, in una città nella quale si sono eternati nel bronzo e nel marmo delle opere pubbliche non solo i nomi degli amministratori eletti dal popolo (e ci sta), ma anche i funzionari che hanno diretto i lavori questa discrezione garbata ha davvero del prodigioso. Legittima l’insistente curiosità di noi giornalisti; un tantinello grottesca la dietrologia che vede in questo riserbo la prova di chissà quali oscure mire o attese di contropartite; probabilmente si tratta solo di persone che, avendo letto il Vangelo, seguono il precetto «Non sappia la tua mano destra quel che fa la sinistra».

Come che sia, la sindaca Maria Aida Episcopo e la sua Giunta hanno accolto molto positivamente la proposta, che verrà sottoposta al parere di un Comitato di Esperti per una valutazione estetico-contenutistica, passerà per un voto del Consiglio Comunale e ovviamente per il parere della Sovrintendenza. Un aperto favore è stato manifestato anche dall’Arcivescovo Metropolita Giorgio Ferretti, che vorrebbe fare dell’opera, se i tempi lo consentiranno, uno snodo cruciale per le celebrazioni giubilari previste anche a Foggia. Si comprende il perché analizzando il progetto e le intenzioni espresse da Limosani, che attraverso queste agili strutture protese al cielo e i cuori da esse innalzati rende un laico omaggio alla speranza, a quell’ultima dea di cui Papa Francesco ci vuole «pellegrini» nel 2025. E quale terra più della nostra racchiude in sé pellegrinaggi e speranza?

Ci si aspetterebbe quindi che una buona notizia, una lieta epifania del genere proceda de plano, fra unanimi ed entusiastici consensi. Ma per fortuna non è così: abbiamo -e ce ne sono stati riflessi abbastanza improvvidi anche nella presentazione alla stampa tenutasi nella (splendida) Biblioteca di Economia– manifestazioni piuttosto consistenti di ius mugugnandi, che riguardano in parte annotazioni estetiche più o meno avventurate o approssimative; in parte più consistente, soprattutto in ambito social, improbabili proposte alternative, con quell’autentica pietra miliare del foggianesimo che è «Nun putev’n fa…?» nelle quali si vagheggiano fontane, boschetti e fioriere (che è un po’ come chiedere a Giorgio De Chirico di darvi una mano di tinta in camera da letto); in parte residua preoccupazioni «ambientaliste» sulla tutela dei luoghi e di ostracismo ai «tralicci». Perché dico «per fortuna», pur ritenendo sommessamente questi           argomenti risibili?

In primo luogo perché non mi piacerebbe affatto se la mia città si dicesse «a caval donato non si guarda in bocca» e che digerisse l’opera di Limosani solo perché gratuita; sarebbe avvilente per l’artista, per i benefattori, per tutti noi. In secondo luogo perché è tempo che Foggia accetti la sfida del contemporaneo, rispetto al quale pratica una perenne fuga dettata da superstizione e ignoranza. Anziché infilarsi in pagliacciate ridicole come l’autoritratto di Leonardo trovato in soffitta, si abitui a fare i conti con l’arte del nostro tempo, quella che non può non essere concettuale, che non può non essere in qualche modo citazione.

Nessuno è obbligato a farsi piacere i giganti ferrosi a sommità cardiaca, per carità; proprio come nessuno è obbligato a condividere l’estemporaneo e provvisorio percorso di mattoni che  Enrico Iuliano, con il prezioso sostegno di Francesca Di Gioia ha realizzato nel cortile-chiostro della Cattedrale o a bearsi delle coraggiose e innovative mostre che il gallerista Giuseppe Benvenuto propone tenacemente alla Contemporanea di viale Michelangelo. D’altronde, qualcuno vi costringe a farvi piacere la Tour Eiffel, gli orologi squagliati di Dalì, le immagini seriali di Warhol, la Pyramide du Louvre? Certo che no! Ma affrontateli, conosceteli, invece di limitarvi a rimanere a bocca aperta davanti al sublime lavoro di Edoardo Tresoldi a Santa Maria di Siponto senza capire come quell’artista ci sia arrivato e perché.

Non scrivo queste cose per impartire lezioni a qualcuno, figuriamoci. Le scrivo perché, come dice Limosani citando Duchamp, l’opera d’arte richiede la nostra collaborazione, si completa attraverso il nostro sguardo e la nostra percezione. Limosani vede nei giganti ferrosi la grandezza e la miseria della rivoluzione industriale? Vede nei cuori che innalzano una speranza per le nuove sfide e i nuovi pericoli dell’intelligenza artificiale e del superamento dell’umano? Affari suoi. Noi siamo liberi di vedere una coppia di tralicci dell’Enel con tanto di cartello con teschio e tibie incrociate e due goffe luminarie fuori stagione. Oppure…

Oppure, come me, potete ricordare quello slancio metallico ed elettrico come quello su cui si poggiava il globo nella sigla del primo telegiornale di tanti anni fa. O vedere in quei due cuori il simbolo di una città sospesa e divisa, come nel controverso romanzo di Marlo Morgan «E venne chiamata due cuori». Perché da sempre Foggia ha due cuori, uno dei quali sogna e l’altro ha paura. Un cuore per le sue grandiose umiltà e le sue eroiche miserie e un altro ubriaco di tronfia presunzione. Un cuore erratico e viandante, che batte con la stella più lontana e l’altro che ti inchioda qui, per quanto tu sia lontano sull’estremo orizzonte.

Magari è proprio questo doppio cuore che porta Limosani a dividere il suo tempo fra i brand più famosi del pianeta, la Harvard University di Cambridge, MA, gli ultimi ritrovati delle nuove tecnologie e i post social di foggiani che la sanno lunga. Non lo so.

So che faccio il tifo per lui, e non solo per la tenerezza che mi dà il ricordo di un giovane deejay intraprendente e squattrinato, ma perché sono stato fra gli oltre centomila visitatori della leggendaria mostra «Dante poeta eterno», nella Cappella dei Pazzi (progettata e realizzata da Filippo Brunelleschi, scusate se è poco) del Complesso di Santa Croce. E lì questo satanasso dai capelli ribelli a cui brillano gli occhi quando può usare un’espressione  foggiana, mi ha raccontato Dante e la Commedia senza usare una sola parola, e con un’efficacia che non dimenticherò mai. Per questo –mi scusino gli obiettanti- nel massimo rispetto delle procedure, delle regole, del più ampio coinvolgimento, non vedo l’ora che Foggia «venga chiamata due cuori».

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