We Humans, nella danza gli spettatori vedono il corpo dall’esterno

by redazione

Le veneziane hanno le gambe belle, si dice, a furia di camminar tutto il giorno e far su e giù per i ponti.

Hanno anche i piedi dolenti, aggiungo, mentre valuto se sia o meno opportuno indossare i tacchi per affrontare la passeggiata dal nuovo alloggio sino all’Arsenale.

Assorta in simili considerazioni, mi ricordo che, quando vivevo qui a Venezia, indossavo spesso la versione con laccetto delle “furlane”, ciabattine in velluto di cotone con la suola fatta di copertoni di bicicletta riciclati che, friulane di origine ma di buon grado adottate dai veneziani, sono diventate le classiche calzature da gondoliere. Così, decido di cercare un paio di furlane sulla strada per l’Arsenale; ma sono pur sempre una donna che sta per comprare delle scarpe e va a finire che nel negozio di furlane ci passo circa un’ora e che di paia, invece che uno, ne compro tre.

Col mio piccolo tesoro di scarpe colorate mi avvio verso l’Arsenale in un’ottima disposizione d’animo e, col senno di poi, dico: per fortuna. Perché con un’altra disposizione d’animo, non so se avrei superato una giornata con due performance e due spettacoli in programma, tra cui alcuni che hanno richiesto allo spettatore un gran contributo di pazienza.

Oggi mi attendono De Humani Corporis Fabrica (un’installazione video), Flat Haze (una performance di Cristina Caprioli), Dead Lock (spettacolo di Cristina Caprioli) e, dulcis in fundo, Behind the South: Dances for Manuel dei Sankofa Danzafro

De Humani Corporis Fabrica,di Verena Paravel e Lucien Castaing-Taylor

L’installazione video “ruba” il titolo ai volumi di Vesalio che, nel 1500, stila il primo studio di anatomia umana; è composta da vari schermi, posizionati in modo che lo spettatore possa guardarne uno o anche due o tre insieme, in una sorta di zapping ottenibile semplicemente girandosi.

Sugli schermi sono proiettate riprese di operazioni chirurgiche, nelle quali si alternano la visuale esterna, resa da telecamere poste in sala operatoria, e quella interna, ottenuta dalle riprese delle telecamere utilizzate dai medici per visualizzare l’interno del corpo.

C’è poi un video che ripropone la visione macroscopica di cellule sane e tumorali.

Insomma, vediamo il corpo nella sua incredibile complessità ma, anche, nella sua fragilità: un seno dissezionato, in cui si nasconde un cancro; una placenta; l’operazione ad un occhio; sangue che sprizza inatteso durante un imprevisto in sala; ma, anche, volti e voci dei medici, ora preoccupati ora rassicuranti, dei pazienti, degli assistenti.

La performance risponde al tema della Biennale Danza di quest’anno, We Humans, suggerendo che “Nella danza gli spettatori vedono il corpo dall’esterno, come un’unità che si muove, respira, suda, pulsa. Quando prendiamo questa visione del corpo in tutta la sua forza, flessibilità ed energia e la sovrapponiamo all’immagine del suo interno, otteniamo una comprensione più profonda della nostra esistenza. Visto da dentro, il corpo sembra più fragile. Un meccanismo complesso che ci mantiene in vita. Le due visioni sono complementari. Dopo aver trascorso molto tempo ad osservarne l’interno, il corpo dà l’idea di essere più grande del suo involucro, la pelle” (We Humans, Catalogo Biennale Danza 2024, pag. 104/106).

Premesso che noi danzatrici siamo coinvolte quotidianamente da pensieri su quanto sia affascinante, fragile e complessa la macchina umana, l’installazione non mi sconcerta per la sua crudezza né mi affascina sublimando in poesia. Assuefazione ad aver a che fare continuamente col corpo, nella sua cruda fisicità? Chissà.

Quel che posso dire, è che le espressioni di alcuni visitatori erano incuriosite, altre tra lo sconcertato e il disgustato.

Nebbia in laguna

Esco per recarmi alla sala di fronte, dove è in corso Flat Haze, performance di Cristina Caprioli, della durata complessiva di nove ore, durante le quali si alternano in scena nove danzatori.

Lo spazio scenico è frazionato da metri e metri di filo trasparente che corre da una parte all’altra della sala, più o meno all’altezza delle anche dei danzatori, creando l’effetto ottico di una nebbia orizzontale.

La base musicale è costituita da un continuo sottofondo, per lo più di rumore bianco.

In tal modo, i danzatori creano movimenti che devono continuamente confrontarsi con questa “nebbia”, al tempo stesso limite materiale e trampolino creativo.

Ci danzano sotto, strisciano sul pavimento, si allungano in orizzontale in piedi, immaginano ed esplorano nuove possibilità, mentre anche la musica di sottofondo e le pareti vuote li lasciano liberi di creare, non condizionati da elementi esterni invadenti.

Forse la nebbia immaginata da Caprioli è proprio una cancellazione di influenze troppo rumorose, per potersi concentrare solo sulla creazione?

“Se vuoi pensare, o danzare, allora datti da fare per trovare/ il posto adatto per pensare e per danzare/ troppa luce potrebbe infastidire, una visuale libera, distrarre/ personalmente ho bisogno di spazi angusti e vista scarsa/ dentro armoniche di rumore bianco/ qui potresti iniziare ad affrontare la complessità in modo ordinato/ idealmente operando su corsie parallele/ meglio ancora se su fili che tracciano corsie parallele/ tutto ciò ti limiterà la vista / ti dividerà i pensieri, farà a pezzi ogni mossa”

(We Humans, Catalogo Biennale Danza 2024, pag. 336).

Rapita dalla poesia eterea disegnata dai fili nella sala, osservo i movimenti precisi dei danzatori, che si dipanano dai loro corpi senza urgenza, senza affanno. Resto aggrovigliata in un momento sospeso, non ben catturabile né definibile, in cui esseri (umani? Oltre l’umano?) danzano in uno spazio leggero e vibrante.

Mentre sono seduta ad osservare, mi torna alla mente un pomeriggio che passai persa nella contemplazione del Ryoanji, noto giardino Zen di Kyoto.

Un giardino fatto di ghiaia, racchiuso tra le mura del tempio, con le sue onde di pietrisco a suggerire immagini marine. Guardando il grigio della ghiaia, nella quasi totale assenza di elementi disturbanti, i pensieri stessi sembrarono riordinarsi, come se una filatrice accorta ne stesse dipanando i nodi.

La stessa sensazione provo guardando i gesti essenziali e precisi dei danzatori, come trattenuta in una contemporanea meditazione: del pubblico che osserva e dei performer che danzano.

Dopo un tempo non definito, il telefono vibra: è l’allarme che mi riporta al mondo reale, ricordandomi che è arrivato il momento di andare al Teatro delle Tese per assistere a Deadolock.

Ma di questo, e del mio personale contributo di pazienza, racconterò domani, nel mio ultimo giorno di diario veneziano.

Francesca Trisciuoglio Capozzi

You may also like

Leave a Comment

Non è consentito copiare i contenuti di questa pagina.