Le moeghe fritte e la natura morta

by redazione

Rinviamo la partenza per la seconda volta. Invece di essere sul treno del ritorno, sono seduta ad un bacaro in Campo San Giacomo dell’Orio, tra campane che suonano, cani che abbaiano, cicale, cinguettii e varia umanità che si alterna ai tavolini vicini.

Il campo, ed anche il bacaro, sono rimasti come li lasciai circa 20 anni fa; solo i prezzi sono triplicati.

Tra un po’ ci trasferiremo in un altro alloggio, proprio qui vicino, e ne sono felicissima: questo campo è uno dei miei tre preferiti, insieme a San Giovanni e Paolo e al Campo del Ghetto Vecchio.

In questi campi, il pomeriggio, si vedono i bambini giocare, mentre i genitori bevono uno spritz ai tavolini. Ultimi avamposti della quotidianità di una città che cerca di sopravviversi, di essere un po’ come tutte le altre.

Per di più, qui a San Giacomo, hanno organizzato una festa di beneficenza; ci sono tavoli, panche, gazebo dove cuoce carne alla griglia, un palco e un programma di concerti, tra cui quello dei Batisto Coco! Un mix di chachacha, mambo, ecc., cantato in veneziano, che mi riporta ai tempi dell’università, quando era facile sentir suonare anche i Radio Rebelde e i Pitura Freska.

Canticchio nella mente “Marghera senza fabriche sarìa più sana – una giungla de panoce, pomodori e marijuana”.

Veloce associazione di pensieri, che vanno dalle panoce alla polenta; ripenso alla chiacchierata sulla cucina veneziana, via whatsapp, con Gianfranco, chef e “custode dello spirito” della mia casa, in mia assenza.

Personalmente, da brava pugliese, nei miei 14 anni veneziani ho sofferto molto la mancanza di una buona cucina.

Escluse le sarde in saor e le moeghe fritte (granchi lagunari morbidi, in quanto pescati nel momento della muta), non mi sento di dire che la cucina veneziana abbia slanci di creatività.

D’altronde, oggi le moeghe fritte non si trovano più e, anche trovandole, sarebbe bene evitare di mangiarle, visto che la Laguna sta morendo, avvelenata dalla diossina.

A chi mi chiedeva, sconcertato, perché fossi tornata a Foggia lasciando Venezia, rispondevo (credendoci): per i pomodorini.

Mentre sono assorta in queste considerazioni, rapisce la mia attenzione una composizione in vetro che si intravede dal portone del palazzo di fronte, che un tempo era la sede del Dipartimento di Urbanistica ma, oggi, è un hotel: una serie di lampadari celesti a forma di medusa.

Restano quasi sospesi in aria, leggeri, una sorta di natura morta di vetro che galleggia in un atrio.

Quest’immagine mi riporta allo spettacolo di ieri.

Still Life di Alan Lucien Oyen

Mi dichiaro subito: il messaggio dello spettacolo è ineccepibile, ispirato, ispirante; ma la resa mi ha lasciata fredda, tranne che in alcuni momenti; insomma, non è un lavoro che mi ha particolarmente coinvolta.

Still Life (natura morta in italiano ma, letteralmente, vita sospesa) indaga il rapporto dell’uomo con una natura sempre più lontana, intravista più che vissuta; nello sfilacciarsi di questo rapporto, l’uomo sembra perdere anche sé stesso in quanto, a sua volta, parte di questa natura.

Lo spettacolo si apre con gli artisti che intonano un coro polifonico, carezzevole, lieve; poi, la scena cambia e si entra nel vivo dello spettacolo, in cui i due protagonisti, a fasi alterne, o comunicano in lontananza attraverso ricetrasmittenti o si incontrano e creano insieme momenti di danza.

Le parti recitate alle trasmittenti sono molto poetiche e plasmano immagini mentali dolci, pur nella loro dolenza.

Quando i due danzatori comunicano alle trasmittenti, dagli spettatori viene percepita la lontananza di due persone che cercano di vedersi, di descrivere all’altro dove sono, persi nello straniamento che deriva dal non capire bene dove si trovino e dal cercare di dare un senso a quel che vedono.

Uno è in un bosco, vicino ad un albero caduto: osserva una colonia di formiche che reagisce alla distruzione del proprio formicaio, creando file, portando via le compagne morte, spostando detriti. L’altro è in un paesaggio urbano, vede molte luci rosse: semafori o, forse, un tramonto?

Uno è in un grattacielo troppo alto, intrappolato da un incendio, avvelenato da fumi tossici. O in un parcheggio infinito, in cui non c’è più posto per nessuno, né modo di uscire.

A interrompere o accompagnare queste narrazioni, momenti di danza che sembrano poter sfociare in lotte ma si trasformano continuamente, creando gesti di sostegno, poi di scontro, poi intrecci, poi squilibri, poi morbidezza, poi angoli e scatti.

Talvolta si manifesta una sofferenza, creata attingendo alla tecnica della danza Buto.

Alcuni quadri paradossali, onirici, interrompono l’alternarsi di recitazione e danza, come quando, dal fumo, entrano corpi con maschere di animali; o quando i due protagonisti indossano maschere simili ad uccelli dal grande becco, circondati da un coro che fa strani rumori ed emette con la bocca strani suoni.

Poi, il manifesto finale: un lunghissimo testo cantato, quasi urlato, in italiano, con tutto il coro in scena.

Non c’è un io fisso, siamo agglomerati di altro, tutto è movimento, tutto è mutazione, c’è il veloce, c’è il lento, tutto si trasforma ed in questo divenire, vive e si manifesta la natura.

In questo manifesto, sento l’eco del Buddhismo (specie Zen) e del Tao, mentre, ascoltando il canto che continua a tratteggiare la filosofia che sottende l’opera, in una sorta di movimento retroattivo, rileggo i due protagonisti come incarnazione delle due forze di cui si parla: il veloce e il lento, il passivo e l’attivo, il sofferente e il sanante.

Ma tutto ciò non basta a farmi incantare dal lavoro di Alen Lucien: a mio avviso, non si crea l’integrazione tra le diverse parti dello spettacolo, necessaria a dargli un’anima.

Da una parte c’è la filosofia di vita, che resta filosofia di vita; dall’altra, le parti danzate che restano “fredde”, poco coinvolgenti e che, per di più, pagano lo scotto di un errore tecnico: nei momenti in cui un danzatore recita e l’altro danza, le parti recitate vengono mostrate in traduzione su un display facente parte della scenografia, ma ciò distoglie il pubblico dalla danza dell’altro protagonista, in quanto l’attenzione viene costantemente divisa tra danza e lettura.

Il talk finale

A differenza mia, il pubblico sembra estasiato dallo spettacolo appena visto e applaude calorosamente. Per una banale legge dei numeri, è più probabile che a sbagliarmi sia io.

Buona parte della sala resta per l’intervista finale, condotta da due allieve del College della Biennale.

Alcuni stralci interessanti delle dichiarazioni rilasciate dal coreografo:

“Se noi ci guardiamo attorno, la natura di fatto sta morendo e noi siamo in questa situazione. Il Buto viene spesso associato all’idea di disgregazione; se volete, una sospensione della morte, la rappresentazione di una morte lenta; uno dei testi che si vedevano durante la performance parlava proprio di questo, del fatto che viviamo in questa vita quasi immobile, come se fosse uno slow-motion, come se stessimo guardando attraverso delle finestrelle un mondo che sta finendo”.

“Ci sarà un modo per poter ricucire [il rapporto con la natura e, di conseguenza, con noi stessi, N.d.A]; viviamo una vita sempre più claustrofobica; interessante che l’arte si stia preoccupando sempre più di questi argomenti (…). Io cerco di non giudicare; tuttavia, in questo lavoro mi sono permesso anch’io di giudicare un pochettino” (in realtà, durante lo spettacolo il giudizio affiora e si avverte in modo chiaro, in uno stile talvolta dai toni vagamente passivi-aggressivi, che non ho molto apprezzato).

“In tutto questo, il mondo è come è, la natura credo sopravviverà, per noi forse andrà un po’ peggio. La morte è semplicemente una trasformazione, non ha necessariamente un’accezione negativa”.

L’intervista si dilunga sul rapporto tra finzione e realtà nello spettacolo teatrale, sin quando le maschere ci avvisano che l’ultimo vaporetto per San Zaccaria sta per partire e torniamo verso casa, cullati dalla laguna su cui navighiamo a luci spente.

Non vedo l’ora di abbandonarmi al fratello minore della morte, il sonno, sulle cui accezioni positive non ho mai coltivato dubbi.

Francesca Trisciuoglio Capozzi

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