Apriamo le danze

by redazione

L’ultima volta che ho scritto per un giornale è stato più di vent’anni fa: coincidenza interessante, scrissi un articolo sulla Biennale di Venezia, Padiglione Giappone, per una testata foggiana.

A distanza di vent’anni, sono qui a scrivere un “resoconto di viaggio”, con gli spettacoli della Biennale Danza a scandire il racconto, e mi chiedo come iniziare la narrazione.

Ma, forse, non posso sostituirmi a Venezia e iniziare io le danze. Venezia le danze le inizia da sola, sin da quando ti permette di accedere alle sue calli.

Immaginate: il treno si stacca dalla stazione di Mestre e, dopo pochissimo, inizia un ponte; a destra c’è acqua, a sinistra c’è acqua.

Unica connessione tra Venezia e la “terraferma”, il Ponte della Libertà ti accompagna mentre lasci alle spalle le solide certezze del resto del mondo e ti inoltri nella città dai mille volti: Venezia è teatrale sin dal suo accesso.

Come fosse un lunghissimo foyer, il ponte crea un interregno che ti accompagna dal mondo reale a quello della finzione, in una città-palco in cui tutto sembra possibile e l’immaginario diventa reale.

Indugio in questo paragone tra Venezia e un teatro in quanto, più volte, mi son chiesta che effetto abbia il contesto esterno sulle sensazioni degli spettatori che assistono ad uno spettacolo di danza.

Onde (Waves)

Lascio aperta questa domanda e mi faccio, invece, trascinare in una piccola corsa all’indietro, rivivendo le sensazioni suscitate in me dalla compagnia Cloud Gate Dance Theatre of Taiwan, con Waves, spettacolo in prima europea ieri, 18 luglio, al Teatro Malibran.

Il direttore artistico della compagnia, Cheng Tsung-lung, inizia lo spettacolo andando dritto al cuore (della questione e degli spettatori).

Dal buio totale, fondo palco a sinistra, entra piano un danzatore. Opera magistrale della regia luci: è illuminato solo lui, in modo perfetto. Lentamente avanza sul fondo scena, verso l’altro lato del palco, sempre nel buio; dietro, man mano, si evidenzia un secondo danzatore. I loro corpi, con la luce che li bagna, sembrano morbidi, fatti di gomma mentre, articolazione dopo articolazione, gomiti, anche, petto, modellano danze fluide nel nero, come se i loro corpi si scomponessero.

Poi, magia: dalle loro schiene, all’improvviso, sprizzano raggi di luce che investono tutto il fondo palco e danzano colorati nel buio, allungandosi in orizzontale e accompagnandoli sino all’uscita di scena dall’altro lato.

Ed ecco, come se ci si svegliasse da un’ipnosi, è in scena l’intera compagnia. Tenendosi le mani creano una fila che danza, talvolta insieme, talvolta in canone; la fila si disfa, nasce un gruppo; una ricercatissima musica techno accompagna i gesti impetuosi ma morbidi. L’ipnosi ricomincia.

Durante tutto lo spettacolo, momenti di poesia si alternano a momenti in cui sembra quasi prevalere una strana frenesia; resta costante il trasporto in una dimensione quasi irreale.

D’altronde, l’anima del lavoro, nelle intenzioni del coreografo, è il rapporto con il virtuale, la propria e altrui identità digitale; sul fondo palco vengono più volte proiettati video di danzatori che cercano di correre verso il palco uscendo dallo schermo o interagiscono con i danzatori in scena, come fossero entità reali (e, forse, lo sono).

Grazie alla collaborazione con Manabe Daito, celebre artista digitale fondatore dello studio multimediale Rhizomatiks di Tokyo, si realizzano proiezioni ed effetti che diventano parte integrante dello spettacolo: “Waves mira a catturare i movimenti del corpo danzante come dati digitali, trasformandoli grazie all’intelligenza artificiale[1]

Così, in alcuni momenti, mentre i danzatori si muovono in scena, i loro movimenti si trasformano in giochi di luce proiettati sul fondo palco, in un dialogo morbido e risonante.

Shock: un danzatore entra in scena correndo. Si guarda introno spaventato, corre, destra, sinistra.

Col suo ingresso, all’improvviso, tutti gli effetti di luce cessano.

Un occhio di bue, manovrato manualmente, si accende e lo segue tutto il tempo.

Siamo ex abrupto nel reale, caduti violentemente durante un volo. Dal cerchio delineato dall’occhio di bue, si percepiscono chiaramente le piccole vibrazioni dovute al controllo manuale: il pulsare del cuore, il respiro, la contrazione muscolare dell’operatore luci.

E’ la scena di un attimo; il danzatore scappa via, si ripiomba nell’irrealtà.

Uno spettacolo è un poliedro

C’è ancora chi crede che uno spettacolo nasca solo dal lavoro di chi è in scena? Se qualcuno c’è, lo invito ad assistere a Waves: in quest’opera, molteplici fattori, anche tecnici, creano intrecci continui per realizzare un lavoro poliedrico e complesso.

Le luci (mi ripeto: magistrali), per tutto il tempo dello spettacolo, disegnano in modo netto e preciso gli spazi di danza sul tavolato del palcoscenico, creando vere e proprie porte di accesso, stanze, limiti e passaggi.

Immaginate un disegno rettangolare di luce che si illumina nel buio e, come una porta che si apre sul palco, crea un accesso. Voilà, ecco, entra un danzatore.

Immaginate la luce che diventa un enorme cerchio che accoglie la compagnia.

Immaginate…

Ho, invece, delle grossissime perplessità sulla diffusione audio.

Premesso che amplificare bene un teatro all’italiana non è cosa facile (ma è comunque fattibile), l’amplificazione era decisamente migliorabile. Il suono “restava giù”, diffondendosi male in balconata e loggione.

Il suono, non basta sentirlo. Bisogna esserci dentro, specie in uno spettacolo di danza.

La musica crea un mondo sensoriale condiviso tra i danzatori e il pubblico. Rende democraticamente pari tutti i presenti nel teatro, creando una sorta di “comune stanza sonora”.

Almeno, così dovrebbe essere: se chi è in alto sente la musica provenire dal basso, senza esserne avvolto, resta sulla soglia della stanza.

Nel caso di Waves, è davvero un peccato: la scelta musicale, che alterna musica elettronica tonale e techno raffinatissima, è di pregio.

Un talk con il coreografo

Mentre, nei miei pensieri, alterno queste considerazioni tecniche a momenti di rapimento, lo spettacolo, in una dinamica continua tra proiezioni, luci e corpi e tra duetti, a solo e momenti corali, scorre fluido, come i movimenti degli interpreti.

Fluidi sono anche gli stati d’animo evocati: si va dal trasognamento allo stupore suscitato dalle azioni più impetuose; non mancano momenti in cui il tono emotivo rallenta, quasi si arresta. I gesti sembrano perdere motivazione, mentre i corpi continuano a muoversi quasi per inerzia e la mia attenzione, per un po’, vaga altrove.

Nel talk a fine spettacolo, il coreografo afferma: “questa fluidità non è una forma artificiosa, è una cosa che è venuta naturalmente; (…) durante il periodo del Covid io magari ho diversi me, diverse identità digitali (…) perciò, quando ho creato quest’opera, ho pensato che anche il “dietro lo schermo” è sempre qualcosa che è reale (…) ho cercato di coniugare il corpo con la tecnologia, utilizzando la tecnologia come se fosse un veicolo, far sì che tutto insieme possa essere fruito”.

Alla domanda riguardo a chi sia un personaggio che, da un video sullo schermo, cerca di entrare in scena, Cheng Tsung-lung risponde osservando che “non riusciamo a staccarci dalla nostra identità digitale: quanto tempo spendiamo su pc, su cellulare; è una specie di vita digitale in cui esiste un’altra versione di noi; c’è una persona vera che siamo noi nella vita reale, però c’è anche qualcuno dentro diversi strumenti digitali; perciò, in quest’opera ho cercato di creare diversi tipi di spazio, con questi personaggi in questo spazio, e loro ritratti”.

Al talk finale siamo rimasti in pochi. L’intervista termina, le maschere iniziano a ricordarci a gran voce che “Signori, il teatro chiude”.

Usciamo, colpo dritto al cuore. Scesa dal treno di fretta, corsa a casa a disfare le valigie, poi a teatro, non lo avevo del tutto realizzato: fuori, c’è Venezia.

Se vi va di approfondire: cloudgate.org.tw


[1] Dalla presentazione del Catalogo Biennale Danza 2024, pag. 170

Francesca Trisciuoglio Capozzi

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