Adolf e Ludwig. Una storia del Novecento

by Enrico Ciccarelli

Non cesseranno mai di avere fascino le porte girevoli della storia, o per meglio dire gli snodi che intrecciano la Grande Storia alle piccole, le vicende di popoli e quelle di singoli individui, famosi o anonimi che fossero.

Per questo, chiedendo scusa per la mia approssimazione di persona priva di conoscenze specialistiche, fedele al motto di Leo Longanesi, secondo cui il giornalista «spiega agli altri quello che lui non ha capito», vi parlerò di due adolescenti austriaci iscritti agli inizi del Novecento, con diverso profitto, alla Realschule di Linz, leggiadra cittadina a metà strada fra Vienna e Salisburgo. La Realschule era quello che oggi definiremmo un Istituto tecnico.

Questi due ragazzi, nati a sei giorni di distanza l’uno dall’altro nell’aprile del 1889, vivevano in un contesto di pace e prosperità: da quando le armate prussiane avevano travolto a Sedan l’esercito francese di Napoleone Terzo, l’Europa aveva vissuto tre decenni e mezzo di insolita assenza di guerre, con la sola eccezione dell’inquieta penisola balcanica. Era la Belle Epoque, dominata da una incrollabile fiducia nel futuro.

Una fiducia che era nutrita dalle sempre più sbalorditive conquiste della scienza e della tecnica, da nuove forme di espressione artistica, da nuovi modi di pensare e di intendere il mondo e l’individuo.

Qualche anno prima di quel 1904 in cui i destini dei due adolescenti si incrociano a Linz, un neurologo ebreo viennese, Sigmund Freud, ha pubblicato «L’interpretazione dei sogni», nella vicina Svizzera un giovane ricercatore ebreo, Albert Einstein, sta lavorando alla sua teoria della «relatività ristretta», che vedrà la luce l’anno dopo. Curiosamente, è proprio in quel fatale 1904 che si svolge, il 16 giugno, la vicenda narrata da James Joyce nell’«Ulisse». Ma tutto questo i nostri ragazzi, Adolf e Ludwig, non lo sanno.

Non sono amici, al contrario: Ludwig è figlio di un facoltoso industriale ebreo, anche se ha ricevuto un’educazione cattolica; Adolf, che avrebbe voluto iscriversi al liceo classico per seguire la propria indole artistica, era stato costretto dal dispotico padre a seguire la via dell’istruzione tecnica. Sono entrambi piuttosto cupi e introversi: Adolf Hitler detestava la società multietnica dell’Impero austroungarico e abbracciava le idee razziste di Georg Von Schönerer. Come scrive lui stesso nel «Mein Kampf» la sua prima espressione di antisemitismo (che in realtà assunse carattere ossessivo solo diversi anni più tardi) dipese dall’ostilità verso un suo compagno di scuola ebreo, «un tipo di cui non ci fidavamo».

L’altro, Ludwig Wittgenstein, quello di cui Adolf e i suoi amici non si fidavano, non ricambiava. Era un ragazzo «strano», con alcuni biografi che gli attribuiscono una «sindrome di Asperger» ante litteram. Amava la musica (sembra che Johannes Brahms fosse un amico di famiglia), era affascinato dai filosofi e dalla matematica, a differenza di Adolf studiava con profitto e teneva in non cale la politica.

Qualche anno dopo combatterono in luoghi diversi, da volontari, la stessa sfortunata guerra: Hitler da caporale, due volte ferito sul fronte occidentale, Wittgenstein soldato di fanteria fatto prigioniero dopo Vittorio Veneto sul fronte italiano. Il resto del loro cammino segue strade di enorme rinomanza, ma lungo percorsi diversi. Hitler tenta un colpo di Stato a Monaco, viene arrestato, diventa a seguito di libere elezioni Reichkanzler tedesco, instaura una delle dittature più sanguinarie mai viste al mondo e precipita la Germania e l’Europa nel più immane conflitto della storia umana, aggravato dall’orrore senza fine dell’Olocausto. Wittgenstein, alla morte del padre, devolve per intero («Non ho fatto nulla per meritare quel denaro», dice) la grande ricchezza ereditata (ne beneficerà fra gli altri il poeta Rainer Maria Rilke), cerca esperienze di vita ritirandosi per circa un anno in un solitario fiordo norvegese e poi andando a fare l’operaio nella Russia bolscevica (ha studiato Ingegneria, ma non è mai arrivato alla laurea) e, grazie al patrocinio entusiasta di Sir Bertrand Russell, pubblica, nel 1922, il «Tractatus Logico-Philosphicus», poco più di duecento paginette di frammenti rigorosamente numerati, caratterizzati da uno stile essenziale e piano, che però a tratti diventa oracolare, come in Nietzche. Un libro sulfureo, folgorante, inatteso, che cambia per sempre la storia del pensiero contemporaneo e rende centrale la filosofia del linguaggio («i limiti del mio linguaggio sono i limiti del mio mondo»).

E mentre Adolf percorre il suo cammino di sangue e di atrocità, Ludwig rimane in quel piccolo paradiso della cultura che è il Trinity College di Cambridge, senza inseguire onori e carriere accademiche, anzi senza pubblicare altri libri (avendo, nella sua divertita opinione «risolto tutti i problemi» con il Tractatus). In realtà continuerà a scrivere moltissimo, con gli eredi che si sforzeranno di dare sistematicità ai suoi appunti e quaderni.

Wittgenstein e Hitler vissero i loro ultimi decenni combattendo contro vari problemi di salute: per il Führer l’impotenza, una serie di gravi disfunzioni dell’apparato gastrointestinale e la dipendenza da farmaci; per il filosofo la depressione atavica (tre dei suoi cinque fratelli morirono suicidi). Uno pianificava la «soluzione finale» e lanciava soldati sempre più giovani e impreparati incontro a morte certa nelle steppe russe, a Cassino, sulle Ardenne; l’altro rifletteva sulle trappole e le imperfezioni del linguaggio, e sui giochi linguistici e scherzava su quella che chiamava la sua «mancanza di senso dell’umorismo». Morirono a sei anni di distanza l’uno dall’altro.

Le ultime parole lasciate ai posteri da Adolf Hitler, il giorno prima di suicidarsi insieme alla compagna Eva Braun nel bunker di Berlino, furono usate per condannare a morte i suoi due antichi sodali Göring e Himmler e per incitare a una «resistenza spietata contro l’avvelenatore del mondo di tutte le nazioni, l’ebraismo internazionale»

Ludwig Wittgenstein, morto di cancro a casa di un amico a Cambridge nel 1951, avrebbe sussurrato ai presenti, prima di spirare «Dite a tutti che ho avuto una vita meravigliosa». Uno morì parlando di odio e veleno, l’altro di felicità e di meraviglia. Magari anche questa è una lezione.  

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