Sono seduta al mio tavolo ma oggi, dalla finestra, vedo i miei alberi di ulivo e non i tetti veneziani. L’ultima pagina di diario, la scrivo passeggiando tra i ricordi del viaggio appena finito e focalizzando, in modo quasi distaccato, quali sensazioni restano vive in me dopo questa Biennale Danza.
Ho interrotto la narrazione dell’ultima giornata nel punto in cui spengo l’allarme del telefono e mi avvio all’entrata di Deadlok, spettacolo di Cristina Caprioli, Leone d’Oro alla carriera di quest’anno.
Un punto morto: Deadlock.
Una cosa divertente che non farò mai più è il titolo di un libro di Wallace in cui, con un tono giocoso e disincantato che stempera le note amare, viene raccontato lo svolgersi di una crociera: qualcosa di teoricamente allettante ma, in realtà, sotto molti aspetti, sconsolante. Dopo un quarto d’ora di spettacolo mi risuona nella mente la frase non farò mai più, non farò mai più, non farò mai più…
All’entrata, il pubblico è accolto da maschere che fanno indossare delle protezioni di plastica sulle scarpe in quanto, nei primi dieci minuti, si potrà camminare nello spazio scenico. Indosso le mie protezioni ed entro.
Per rendere la noia da me e, credo, anche dal pubblico provata nell’assistere allo spettacolo, scriverò d’ora in poi in un italiano magistrale ma senza punteggiatura seguendo un flusso di pensieri che mi condurrà accompagnando il mio ingresso nel teatro dove ci accolgono i grandi schermi che nel nero proiettano parti di corpo mani volto busto che danzano ripetendo gesti ancora e ancora quasi come se la danzatrice li sperimentasse per la prima volta li vedesse nelle loro diverse possibili evoluzioni mentre noi pubblico camminiamo appropriandoci dello spazio scenico definito dai megaschermi e attendiamo una svolta un ingresso un corpo reale che irrompa e quasi materializzandosi dai video incarni la danza la trasformi in corpo e mani e volto presente tangibile un corpo che si annunci che si dichiari e ad annunciarlo è lo spegnersi delle luci che ci invita a sederci mentre un corpo androgino entra in scena ed inizia una sequenza di gesti sulla base di un sommesso rumore di fondo che diventa a tratti armonico e la danzatrice o il danzatore non è subito chiaro danza come se provasse sperimentasse creasse lo stesso gesto ripetuto con qualità velocità intensità diverse ne tracciasse evoluzioni possibili ma spesso interrotte quasi non riuscisse a dare un seguito e poi riprendesse in una sorta di strano flusso ad intermittenza
Bellissimo, ma dopo il primo quarto d’ora si sentivano i profondi sospiri dei presenti; per quanto mi riguarda, l’unica cosa che riuscivo a chiedermi era cosa avesse mai fatto il pubblico alla coreografa per essere trattato in tale maniera.
Deadlock è un’opera in cui le grandi domande della danza puoi portele tutte, se vuoi. Domande sulla motivazione, sul processo creativo, sulla corporeità, sull’espressione…
La danzatrice esegue movimenti precisi, ineccepibili; sembra intrecciarsi, nel movimento, con il suo fantasma evocato dagli schermi (la resa video è in B/N a colori invertiti), rendendo evidente la duplicità corpo presente/corpo evocato; i gesti sono possibilità in fase di concretizzazione, rifuggono da una mera estetica ma restano comunque, a mio avviso, privi di una nutrita motivazione. Mi sembra di guardare una danzatrice che prova a creare una coreografia in Studio.
Intanto il pubblico continua a sospirare, alcuni addirittura chiacchierano, altri si guardano intorno o si aggiustano i vestiti; io, penso alle furlane appena acquistate e mi chiedo se comprarne un quarto paio. L’attenzione generale vacilla.
Insomma, immagino uno spettacolo come Deadlock portato in teatro e non sono certa che vorrei rivederlo: una cosa che non farò mai più. Mi sembra un’operazione speculativa, rivolta agli addetti ai lavori, che può vivere in contesti come la Biennale Danza ma che ha tutto il potenziale per allontanare il pubblico “normale”, come riflettevo chiacchierando con una collega danzatrice di Roma.
Siamo al finale. Uscendo, un signore mi si avvicina e mi chiede se non stessi per morire di noia.
Beh, si. Mi fa alcune domande, avanza alcune osservazioni in tutto simili a quelle da me tratteggiate sin qui; ci salutiamo in modo quasi mesto e, con un fare da sopravvissuti, ci avviamo al prossimo spettacolo.
Human in the Loop di Nicole Seiler
Almeno all’inizio, lo spettacolo mi fa tremare: mi sembra ancor più concettuale del precedente.
Lo spazio scenico è definito dal perimetro di un quadrato disegnato sul pavimento mentre, fuori del quadrato ma comunque sul palco, c’è la postazione tecnica con una fila di computer portatili che interagiranno con i danzatori.
Parlo di computer che interagiscono e non di persone che interagiscono in quanto le coreografie sono create ogni giorno dall’intelligenza artificiale e i danzatori provano la coreografia per la prima volta il giorno prima dello spettacolo.
Ma, dopo un primo momento di scoramento, Human in the Loop mi rapisce pian piano.
I danzatori eseguono strani movimenti, apparentemente senza un preciso senso.
Ripetono la combinazione di movimenti.
Poi, parte una voce automatizzata e scopriamo che i danzatori stavano eseguendo le indicazioni della voce, quella dell’intelligenza artificiale.
Sarà per i gesti apparentemente insensati, che trasformano i danzatori in cyborg esecutori di strane richieste; oppure, sarà per la presenza umana e naturale di quegli stessi corpi, che entra in dialogo con le azioni e le espressioni automatizzate che eseguono; resta il fatto che lo spettacolo mi dischiude nuove idee e nuovi spunti, anche per il mio lavoro.
“Mi piace il pensiero degli ibridi, delle entità non binarie, delle mescolanze. Mi piacerebbe quindi pensare l’io e l’altro non come due cose separate o opposte, ma come una coppia intrecciata (…). Human in the Loop postula che non sia realmente possibile distinguere quanto sia creato dall’uomo e quanto dalla macchina e immagina sul palco un quadro di ibridazione e collaborazione” (da We Humans, catalogo Biennale Danza 2024, pag. 279).
Riconquistato il mio consueto ottimismo, esco dal plesso per dirigermi verso il Teatro Piccolo Arsenale.
Qui, mi attende lo spettacolo che ho più desiderato vedere in tutti questi giorni.
Behind the South: Dances for Manuel, Sankofa Danzafro
È dall’altro ieri sera che penso a come descrivere lo spettacolo. Di fatto, credo non lo descriverò.
Posso riportare che il lavoro si ispira al romanzo Chango: el gran putas di Manuel Zapata; in scena si alternano momenti solenni, quasi sacrali, in cui si delineano presagi e nascite miracolose, e momenti di potenza esplosiva, incontenibile, in cui il gruppo danza insieme donando al pubblico davvero tutto quel che un danzatore può donare.
Le radici africane vengono rivisitate con forza e vitalità da questa compagnia colombiana, che affronta temi come razzismo e diaspora con un’energia incomparabile.
L’unica cosa che posso dire è che una danza come questa non va raccontata, va vista; va anche ascoltata, data la presenza in scena di percussioni e canti dal vivo.
Durante lo spettacolo, la vitalità smisurata dei danzatori si trasferisce pienamente al pubblico; vorrei alzarmi e danzare con loro, presa nel loro stesso turbine.
Qui mi fermo. Solo un dato di cronaca: lo spettacolo si guadagna l’unica standing ovation della Biennale, almeno sino a quel momento.
Le riflessioni che faccio oggi, a due giorni dallo spettacolo, hanno invece un tocco amaro.
La Biennale, in alcuni momenti, è stata pioniera nella diffusione di linguaggi di danza non eurocentrici o non canonici. Qui hanno trovato spazio il Buto, la danza sudamericana, quella africana; ma cosa accade nel resto d’Italia?
Siamo abbastanza consapevoli da riuscire ad accettare, anche al di fuori dei contesti di nicchia, che esistano svariati linguaggi nella danza, svariati approcci, svariati percorsi, tutti ugualmente validi se utilizzati con serietà, professionalità e ispirazione?
L’artista si riconosce dal materiale che usa o da come lo usa?
Con queste domande, che esulano dal tema della Biennale Danza 2024, We Humans, ma si avvicinano al mio quotidiano di danzatrice di Buto, chiudo la parentesi veneziana.
Porto con me in valigia una nuova maschera, tre paia di furlane, l’impronta di Venezia, nuovi spunti di lavoro e un sacco di voglia di danzare.