Joker, la maschera della diversità o l’altra faccia del sogno americano

by Giuseppe Procino

I’ve been a puppet, a pauper, a pirate

A poet, a pawn and a king

I’ve been up and down and over and out

And I know one thing:

Each time I find myself flat on my face

I pick myself up and get back in the race

That’s Life FRANK SINATRA


Difficile definire e incastrare Joker nel filone del cine comic come in qualsiasi altro film di genere. Questa pellicola, che sta battendo ogni record di incasso in tutto il mondo, non deve nulla ai suoi predecessori così come, all’apparenza, neanche alla materia originale di cui ha l’ardire di voler essere il discendente.

Solo spunti, citazioni, il resto vive e brilla di luce propria, quasi come se il punto di partenza fosse lontanissimo o semplicemente tangente alla matrice. No, non è un film che si focalizza sulla dicotomia bene e male, in cui da un lato ci sono i supereroi, dall’altro lato i cattivi, ma è una riflessione amara sulla società americana, in cui il male è l’individualismo, l’incapacità di empatia che condanna il diverso e lo relega ai margini di una vita normale.

Joker è il mezzo per poter raccontare altro, lo strumento ideale per elaborare una propria poetica. Nel fumetto americano i reboot o i remake, sono all’ordine del giorno e d’altronde anche al cinema è così, a volte con risultati stupefacenti (Spiderman: un nuovo universo) altre volte un po’ meno (Batman contro Superman). Il comic si evolve con la società e si adegua alle evoluzioni e i cambiamenti in corso. Anche il cinema derivativo da questo genere deve rispettarne le regole e porsi di volta in volta come rielaborazione, riscrittura. 

Il problema con questa pellicola è l’identità legata all’immaginario di carta. È infatti una riscrittura del personaggio che crea un microcosmo a se stante, una Gotham City ripensata e ridefinita su nuove prospettive del racconto. Eppure per i più attenti, si tratta di una Gotham City fedelissima nello spirito alla rilettura data da Frank Miller o da Alan Moore e Brian Bolland seppur eviti il sensazionalismo cupo da cui hanno ampiamente attinto Tim Burton e Cristopher Nolan. Non mancano i riferimenti e gli incastri con la storia dell’uomo pipistrello, anche nella ridefinizione data sulla celluloide, a volte esplicitati, a volte nascosti.

La vera innovazione di questa nuova pagina targata Dc Comics sta nella scelta del ritmo crescente e nell’identificazione con un genere inusuale. Joker non è un action movie fantastico ma è a tutti gli effetti un film drammatico con incursioni nel poliziesco a tinte psicologiche. Ed è proprio l’indagine psicologica a prendere il sopravvento a discapito della tecnologia e degli effettoni lasciando semplicemente parlare la storia, retta da una scrittura che fa da padrona assieme a un’interpretazione che impressiona per la naturale crudezza. Il Joker, interpretato da un superlativo Joaquin Phoenix, è semplicemente un uomo che compie delle scelte, una personalità fragile spinta sul baratro del libero arbitrio. Un personaggio che percorre il cammino del male. Un film quindi non sul cattivo del vigilante più noto della storia del fumetto, ma sulla condizione esistenziale di un emarginato, in cui il Dc Extended Universe è messo completamente da parte e di questo siamo felicissimi.

Se a qualcosa deve rendere tributo il duo Phillips- Phoenix quello è il cinema indipendente d’autore americano degli anni settanta, capace di raccontare la condizione umana di personaggi al limite, denunciando l’altra faccia del sogno americano.

Ma Joker tanto deve anche al cinema di Martin Scorsese da Mean Streets a Taxi Driver, finendo a Re Per Una Notte da cui prende in prestito interi temi narrativi, suggestioni e ricalchi fedeli, ma slabbrati (come la iconica scena di Joker-Travis a torso nudo con la pistola), e che rende la presenza di Robert De Niro per nulla casuale. Phillips si avvale poi di uno stimolo nostalgico che ripudia tinte sfavillanti a vantaggio di un’immagine spenta che chiama in aiuto la riprese a spalla, alla ricerca di un realismo tout court. Se da un lato c’è tanta recitazione, dall’altro lato c’è tanta regia, un’ottima regia che ha le idee chiare e lavora su uno stile molto personale.  Joker non è solo un’ottima pellicola ma è anche un omaggio al cinema, un compendio di citazioni e omaggi che non possono sfuggire al cinefilo più attento.

Ruvido, ansiogeno e violento, come una società incapace di aprirsi verso le problematiche del prossimo e in cui la cronaca diviene una diretta conseguenza, Joker rappresenta anche uno studio sul personaggio fatto con grande cura e impressionante convinzione creando di fatto una futura pietra miliare del genere e donando dignità al Comic americano, da molti ancora oggi considerato un prodotto di scarso valore. Sarà questa la vera lezione.

Con questa interpretazione il personaggio, inventato dall’immaginazione di Bob Kane nel 1940 diventa così, dopo le interpretazioni da antologia di Jack Nicholson e di Heath Ledger, un punto di arrivo: Phoenix ha rincorso il Joker, lo ha voluto ad ogni costo e aveva ragione. Il Leone D’Oro a Venezia ne è la prova. È la rivincita dei nerd ma anche la rivincita della narrativa disegnata che è in grado di esprimere valori assoluti e affrontare tematiche complesse e universali.

Phoenix infatti sorprende dall’inizio alla fine, forse più sul finale paradossalmente quando diventa fumetto, perché sveste i panni dello schizoide sfortunato e sottoproletario depresso per essere Joker, ma è questione di gusti. Sorprende sia quando dà uno straziato corpo ad un disgraziato diverso con tic e risata disturbata, sia quando immerge il pubblico nella sua vita sentimentale solo sognata e fantasticamente allucinatoria sia alla fine quando la personalità maniacale vince ed esplode nello show live di Murray Franklin/Bob De Niro. La scena tra i due è un pezzo cinematografico da antologia.

Nel mezzo c’è una profonda riflessione sulla maschera e sullo stigma. È anche un film estremamente psichiatrico con intuizioni geniali sulla malattia mentale e sulla “persona”, etimologicamente intesa (persona è maschera in latino). Anonymous è per primo il folle, di cui ci si accorge solo quando devia pesantemente. Quando le sue impronte, che la società vorrebbe inserite in un percorso già scritto e normale (corridoi, strade, lavoro, famiglia) lasciano sangue nel mondo ovattato, sia esso un ospedale psichiatrico o uno studio televisivo.

La metro e i mezzi pubblici sono l’unico luogo di contatto e contaminazione tra le diversità da un lato e l’omologazione della società dei consumi dall’altro. È chiaro che Joker parla all’oggi più che al fumetto, alla società chiusa nelle proprie classi sociali dei tempi contemporanei. Quando Arthur ormai divenuto Joker, truccato in metropolitana, viene rincorso dagli sbirri e si confonde nei gruppi di clown che stanno per manifestare al corteo indossando una maschera da pagliaccio si vive uno sdoppiamento. Chi è più maschera in un mondo senza persone? Chi la indossa come sintomo, chi di quel sintomo fa la sua fortuna o chi la infila per diventare anonimo e colpire?

(con la collaborazione di Antonella Soccio)

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